Flashback: schegge di assaggi indietro nel tempo: un contenitore prezioso di momenti importanti, da raccontare e condividere, a tu per tu con bottiglie che restano e che, per una ragione o per l’altra, non si dimenticano. Insomma, di quando il passare del tempo conduce ad un “vecchieggiare” baldanzoso e stimolante, ché quasi il tempo non lo sente più.
Fresco, slanciato e nobilmente terroso, dal bel frutto di ciliegia, dal commento “silvestre” e dalla droiture tipica di un sangiovese “d’altura”, cerca e trova agilità e brillantezza lungo tutto l’arco gustativo, giocando di snellezza più che di fisicità e accogliendo una timbrica dalle risonanze finanche chiantigiane per garbo e profilatura. La matura impalcatura tannica, dolce e misurata, non ferisce ma accompagna una beva modulata, calibratamente grintosa, vitale. Ottimo!
Un pizzico di volatile in esubero lì per lì tende a confondere i profumi; poi si fa veicolo ideale per instradarli nel verso della nitidezza, via via più manifesta e dettagliata. Legni profumati (dal coté speziato oriental-esotico ) imbellettano un frutto tonico e scuro negli accenti di mora e cassis, dai riflessi decisamente mentolati. Ficcante e caratteriale a
Brunellone austero, tipico e serioso, che non si sdilinquisce nell’eloquio ma trattiene quanto basta, e morigeratamente centellina, gli umori buoni della terra sua: dall’humus al fogliame, dalle spezie al caffé, esprimendosi secondo un carattere deciso, coriaceo, grintoso, di grande dignità territoriale, fors’anche aiutato in questo dal millesimo in gioco, oltremodo qualitativo.
Una curiosità: il nome del produttore (Ermanno Rosi) non è di quelli che stanno sulla bocca di tutti, ne converrete. Di più, da qualche anno l’azienda, che si chiama ancora San Filippo, è stata acquisita da Roberto Giannelli e la produzione si è indirizzata sui binari di una più aggiornata fisionomia organolettica, debitrice delle rese basse e dei legni piccoli e nuovi. Vedi un po’, a volte, come si muovono le storie.
Chianti Classico Montoro e Selvole 1979 ( collezione personale)
Sulla strada che porta a Lamole, a mi-coteau, da vecchie vigne e uvaggi “antichi” (sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia), Giancarlo Matteuzzi ha concepito piccoli capolavori, di orgoglio e dignità tutti chiantigiani. Le storie poi a volte prendono pieghe strane, magari si perdono per poi ritrovarsi. Oggi, mi dicono, le discendenze nuove di famiglia hanno ripreso in mano l’affaire con piglio deciso, decidendo di reinnestare le vecchie gemme nei ceppi nuovi, stimolando con le uve bianche la voce narrante del sangiovese e decidendo di rientrare nuovamente nella diocciggì Chianti Classico, dopo che l’avevano abbandonata per diversi anni (non so per quale motivo). La domanda è d’obbligo, da che la sfida corre sulla lama del tempo: i miracoli ammetteranno repliche?