La zona è quella elegantemente colta del Quartiere Latino, della Sorbona, del Pantheon, del Museo Nazionale del Medioevo; boulevard Saint Germain e rue des Écoles scorrono vicine e parallele, equidistanti e molto diverse fra loro. È giovedi sera, sono pochi i tavoli liberi. Il giovane maitre è calato nel ruolo di chi tiene le redini di un luogo che è evidentemente sulla cresta dell’onda. Svelto, disinvolto, un po’ “galletto”, guarda spesso, compiaciuto, la sala brulicante di risate e conversazioni in multilingua.
L’apparecchiatura, al solito, è essenziale: un tovagliolino piegato e due posate sul nudo tavolo. La strada imboccata, con cautela e pragmatismo, è quella della bistronomie, ma se ne percorre un giusto tratto, senza strafare. Insomma, alternando piatti classici ad innovazioni o a “raffinamenti”, presentando bene le portate ma evitando fronzoli o composizioni millimetriche. Quello che conta, e che colpisce, è la sicurezza delle scelte di chi sa che il pubblico seguirà.
Il pane viene da una baguette croccante e leggermente scura, ed è servito caldo. Nonostante il pienone, i tempi della cucina sono perfetti, addirittura sin troppo rapidi, e sarebbe interessante sapere quanto è grande e in quanti ci lavorano. Per iniziare, la testa di maiale (hure du cochon) accompagnata da una confettura di datteri all’aceto è (come è ovvio, trattandosi di testa) a tratti morbida e a tratti coriacea, dolce nell’impianto, sicuramente d’impatto e coinvolgente.
La blanquette d’agnello, ben eseguita, è fatta per confermare i peggiori pregiudizi italiani sulla cucina francese come basata su salse spesso assai pannose. La carne è tenera ed elegante nei sapori e anzi, se fosse stata un tantino più selvatica avrebbe forse meglio contrastato l’abbondante crema bianca. Ad accompagnare, légumes oubliés, che sono poi delle minuscole carote.
Forse la sorpresa maggiore arriva dal dessert, un gateau di patate (bel coraggio!) aromatizzato al limone e timo su cui è “montato” un sorbetto di mango. Quindi, contrasto di consistenze, di sapori (leggermente salato/dolce), e soprattutto di temperature.
A conclusione un ottimo caffè. Molto interessante la carta dei vini (anche da asporto, a metà prezzo), entrée a 10 euro, plat a 20 e dessert ad 8; il menu di tre piatti viene 32 euro.
Rue Oberkampf è una delle vie più vitali del centro parigino, condita com’è dagli umori multietnici di Belleville trasportati giù da rue Menilmontant. L’ambiente e l’atmosfera, qui, sono quelli del bistrot classico, informale, nell’aria si percepisce un po’ della nevrosi metropolitana. Se si va in cerca di autenticità, più che di luoghi modaioli, questo è un buon indirizzo. Nella sala del piano rialzato c’è una allegra tavolata di ragazzi che ridono, conversazioni vivacemente amichevoli intorno al bancone, a tratti arriva una musica ad alto volume. A servire un giovane in maglietta bianca, un po’ distratto e poco comunicativo, in sala circola anche una donna invece simpatica e un po’ stralunata.
A pranzo sono occupati pochi tavolini, se ne può avere uno che dà sulla strada e rilassarsi guardando fuori, anche perché rilassati sono i tempi della cucina. Le proposte seguono un interessante percorso non scontato attraverso la tradizione, eseguito con un approccio casalingo ma non senza accenni di originalità, e peccato che la fricassė di cappesante, indicata nella lavagna in strada, sia stata cancellata dal menu. Qualche limite nella tecnica si intravede, a meno che non fosse inaspettata, a pranzo, la richiesta di piatti del menu esteso, probabilmente indicato per la sera.
E dunque i ravioli di foie gras, nonostante la crema (sempre di foie gras) che li accompagna sia quasi un brodo (ma manca il cucchiaio), si mangiano volentieri anche per il contrasto fra l’intensità del ripieno e la suadenza complessiva. Convincente, poi, sempre a proposito di tradizione, il souris di agnello al miele e rosmarino. In assenza di dessert degni di nota, arriva un egregio Cantal, leggermente piccante ed acidulo, elastico e al tempo stesso burroso.
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