Sciatte, bruttine, casiniste, sempliciotte: parliamoci chiaro, anche se di difetti le sagre ne hanno mille, continuano a riscuotere successo. Un po’ come quelle donne o quegli uomini affatto belli che mentre li osservi ti chiedi perché abbiano così tanti spasimanti: doti nascoste, sicuramente, e proprio per questo ancora più intriganti, come quelle delle sagre, che le fanno essere da sempre sulla cresta dell’onda.
Cominciamo con l’argomento: ce n’è per tutti i gusti e se facessero la sagra della lattuga –a mio parere l’insalata più inutile al mondo– nessuno si stupirebbe; anzi, in molti correrebbero a provarla, perchè la sagra, di default, crea curiosità.
Fra le più divertenti, per nomi o tematiche affrontate, ci sono quella della ficamaschia dorata (mi piace immaginare la vostra faccia mentre la cercate su Google), del calamaro e maiale (dal piglio democratico), del cavolo verza (brividi al solo pensare all’odore che inebria l’aria), de la volìa cazzata (niente di scurrile, semplicemente un’oliva schiacciata) e così via, su e giù per lo Stivale, passando per le classiche, come quella del fungo porcino o del maiale.
In Italia nessun piatto e nessun prodotto alimentare è indegno, e tutti possono diventare protagonisti indiscussi di una sagra. Ma a parte i temi che promuovono e condividono con i famelici avventori, cosa hanno di così interessante e perchè piacciono da impazzire? Le ho osservate attentamente e la prima cosa che posso dire a loro favore è il clima di festa che offrono: coloro che vi lavorano, tutti volontari, vivono quel momento come un divertimento e ciò che si respira è un’aria scanzonata, leggera, a differenza dei tantissimi ristoranti in cui sempre più spesso la tensione la si taglia con il coltello ed i musi lunghi sembrano compresi nel menù del giorno.
Altra caratteristica che le fa essere delle “star” è la convivilaità che sponsorizzano: alle sagre si mangia in tavoli comuni, fianco a fianco, così a fianco che si può sentire il calore del proprio vicino di “merende” ed utilizzarlo come uno scaldino nelle sere più fresche. E alla gente questo piace, fa sentire come a casa, senza però lo stress del dover cucinare e del dover litigare con i parenti per la scelta del programma tv da vedere durante la cena.
Infine il prezzo. Vero, se paragonato ad un ristorante che offre un servizio a tavola, il più delle volte tovaglie e tovaglioli di stoffa, calici, glacette e quant’altro per rendere migliore l’esperienza, non è poi così basso, anzi, ma si aggira sempre attorno ad una cifra – 25 euro, incluso un morso alla prosperosa cassiera- che bene o male non fa mai scendere la gocciolina di sudore, quella cifra “di confine” che tutti possono reggere senza invocare inutilmente santi in proprio soccorso.
Ma soprattutto la sagra è libertà estrema, intesa come “ci vado vestito come mi pare”. Con un paio di zoccoli anni ’80 rumorosi quanto l’arrotino per strada che invoca le donne ed i loro coltelli; con il tacco 12 e la minigonna super mini che risvegliano i sensi anche agli ultracentenari; con un vestito sormontato da paillettes (soprattutto se la sagra è corredata di ballo liscio); con un abito da sposo abbandonato all’altare; con la tuta da lavoro chiazzata ben bene di olio motore o di olio colato dal panino con la salsiccia; con il kilt comprato come souvenir nell’ultimo viaggio-avventura in Scozia. Perchè la sagra non giudica, la sagra accoglie e abbraccia tutti, belli o brutti che siano.
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