PREAMBOLO
1) Montecarlo è divenuta celebre, in origine, per i suoi vini bianchi, circostanza non proprio scontata se mi parli di Toscana e di toscanità. Tanto per dire, il Montecarlo Bianco fu una delle primissime DOC italiane in ordine di tempo, e correva l’anno 1969.
2) Il “meticciato” viticolo, ovvero l’esterofilia di cui si alimenta l‘ossatura varietale dei vini di Montecarlo, non è un vezzo modaiolo né una furbesca strategia commerciale, ma è la diretta conseguenza di uno sviluppo agricolo avvenuto in tempi non sospetti.
Da quando cioé un viticoltore curiosissimo della zona, tal Giulio Magnani, non si mise in testa di migliorare la qualità dei vini andando ad imparare le tecniche di vinificazione d’Oltralpe e portando con sé, di ritorno dai suoi ripetuti viaggi in Francia, barbatelle che in Italia non erano per niente utilizzate: da Bordeaux il sémillon e il sauvignon, così come il merlot e la famiglia dei cabernet; dal Rodano il roussanne e il syrah; da altri territori il pinot bianco e quello grigio….uhei, eravamo nel 1870 o giù di lì. E’ stato da allora che il vigneto montecarlese si è arricchito di alloctonie, ciò che il passare del tempo ha poi tramutato in radicamento territoriale.
Per questa ragione i capisaldi della tradizione -trebbiano per i bianchi; sangiovese, ciliegiolo e canaiolo per i rossi- sono stati progressivamente combinati con questi “migliorativi”, e il vino della contemporaneità è divenuto “un anomalo uvaggio”. In tal senso, l’attuale disciplinare di produzione potrebbe apparire come un rompicapo da Settimana Enigmistica, da quando ti ordina che per il Montecarlo Bianco è prevista la presenza delle seguenti uve: 40-60% Trebbiano Toscano e per il restante 40-60% Semillon, Pinot Gris e Bianco, Vermentino, Sauvignon, Roussanne, globalmente considerati, purché almeno tre dei vitigni indicati raggiungano singolarmente la percentuale del 10%. E che per il Montecarlo Rosso è prevista la presenza delle seguenti uve: 50-75% Sangiovese, 5-15% Canaiolo nero, 10-15% singolarmente o congiuntamente Ciliegiolo, Colorino, Malvasia Nera, Syrah, Cabernet Franc, Cabemet Sauvignon, Merlot.
(S)RAGIONAMENTI
Dall’altro lato però c’è un contraltare infìdo, celato fra le maglie della promiscuità colturale: l’inquadramento della produzione montecarlese non più attraverso una predefinita identità varietale e territoriale, ma attraverso i singoli stili. Per cui, ad emergere, potrebbe non essere il territorio di per se stesso quanto il vino di tal produttore o di talaltro, anche perché è circostanza rara incontrare vini elaborati con le stesse uve utilizzate nelle stesse proporzioni. Accettare il rischio di uno “sfarinamento” espressivo, questo è. Il che significa accettare il fatto che ad emergere siano un Merlot o un uvaggio bordolese, un blend a dominante Sangiovese o un Syrah in purezza, o ancora un Viognier o un Pinot Bianco….. Insomma, una frammentazione di uvaggi e di vini che potrebbe spianare la strada ad una certa frammentazione espressiva, per certi versi difficilmente riconducibile al territorio nella sua interezza.
E’ pur vero che la modifica del disciplinare per comprendervi i monovitigni è nata anche con l’intento di colmare una stridente contraddizione in atto, che vede i vini a denominazione d’origine, Montecarlo Bianco e Montecarlo Rosso, come i vini entry level nell’ambito delle varie proposte aziendali: quelli meno ambiziosi, quelli più semplici. E solo per questo, forse, è stato un atto dovuto.
Ecco, in diversi casi questa “apatia” stilistica si è manifestata anche qui: produzioni non sempre all’altezza del blasone, abitate da vini schietti, semplici ma anche un po’ ruspanti e poco rifiniti, portatori sani di una certa approssimazione. Mentre i vini più importanti della gamma, costituiti sempre e comunque da etichette al di fuori della DOC, a volte si sono fatti abbindolare dalla chimera della presenza scenica e della potenza estrattiva, più che dal dettaglio sottile o dall’eleganza, doti queste ultime senz’altro connaturate con il terroir montecarlese.
Indi per cui la recente rivisitazione del disciplinare, con l’apertura ai monovitigni, affinché funzioni dovrebbe generare a mio avviso un primo importante livello di comunicazione, per focalizzare attenzioni sul territorio e propiziarne la rinnovata nomea e il rilancio. E ci riuscirà se, intanto, i produttori delle etichette più celebri e celebrate, che fino ad adesso si fregiavano di un “Toscana Rosso Igt” o di un “Toscana Bianco Igt”, decidessero di farle confluire nella nuova DOC, dichiarando fieramente che si tratterà di un Montecarlo Syrah DOC, di un Montecarlo Cabernet DOC ecc ecc.
Sì, è da questa consapevolezza, da questo “crederci tutti insieme” che il territorio potrà ricominciare a contare nello scacchiere vitato toscano. Perché i vini buoni non mancano. Difficile ora realizzare che provengano da Montecarlo. Consacrare la migliore produzione sotto l’egida della denominazione di origine costituirebbe il punto di partenza per una ulteriore messa a fuoco stilistica da parte dei singoli produttori, sicuramente stimolati, qualora la nomea del territorio venisse maggiormente premiata e “percepita” dagli operatori e dal consumatore finale, a fare di più e meglio per attestare tutta la produzione, da quella meno ambiziosa al prodotto di nicchia, negli alvei della qualità e della singolarità espressiva.
Mosso da una curiosità autentica e cosmopolita, amante della bella vita, della beat generation, del blues e del jazz, il “Fuso” probabilmente incarna, in questo preciso momento storico, il portavoce ideale per il territorio, se si intende cavalcare il tempo nuovo nella speranza di poter ottenere un ritorno di immagine più forte e identitario. La sua apparente stravaganza, che è anche stravaganza linguistica, punteggiata da un parlato jazz, quasi “be-bop”, con le improvvisazioni sul tema e gli attesi refrain, detta i tempi attirando inevitabilmente su di sé le attenzioni degli astanti, a tutti i livelli. E’ quel che ci vuole: immedesimazione, coinvolgimento, amour fou per la propria terra.
Gino, a nome del Consorzio, ha contribuito molto affinché i produttori fossero coinvolti e rispondessero con le campionature a questa piccola chiamata, perché fare un focus su Montecarlo era una cosa a cui ambivo da tempo. Per questo ringrazio lui, il consorzio e, ovviamente, i produttori che ci hanno gentilmente concesso i vini.
Gino è anche l’unico produttore (o quasi) che non ha presentato una campionatura. Come suo costume, amabilmente, rispettosamente, si è fatto di lato. Non credo, conoscendolo, si tratti di snobismo, anche perché se vai a trovarlo nella sua osteria contadina sulle colline di Montecarlo – “Da Baffo”, una istituzione – ti saprà ricompensare, oltre che con una calorosa compagnia, con vini a volte spiazzanti e a volte buonissimi, comunque sempre personali. Il Fuso va preso così com’é (e va conosciuto!), perché lui, in fondo, è solito dire: “fate ciò che volete, io sono per i Rolling Stones!”
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Nell’ultima foto, estratta dagli archivi storici de L’AcquaBuona: Gino Fuso Carmignani (a sinistra) in compagnia di Romano Franceschini, carismatico ristoratore in Viareggio (Ristorante “Da Romano”) e montecarlese doc (non igt)