A suo favore, invero, giocano i “tempi enoici” che stiamo vivendo, dimentichi dell’opulenza e più inclini alla freschezza e alla bevibilità, caratteristiche accondiscese senza sforzo da questo vitigno, forte di una acidità naturale elevata (6-6,5) e di una morigerata alcolicità potenziale.
A suo favore gioca poi la versatilità, attributo buono per tutte le occasioni. Si passa così da versioni “mosse” (bollicine spigliate ma senza pretese, sovente vinificate in autoclave) a versioni in bianco “tradizionali” (in acciaio), fino agli orange wines o “macerati”, questi ultimi nati e cresciuti sotto la spinta propulsiva della compagine di Oslavia, guidata da interpreti d’eccezione quali Josko Gravner in primis, Radikon, La Castellada, Primosic, Dario Princic, poi diffusasi nell’area di San Floriano (Paraschos, Terpin) e anche più in là (Brda slovena).
Talvolta, e parlo dei casi più risolti, l’inspessimento in fibra e in tannini ha conferito ai vini un’aura decisamente caratteriale e meno anodina, consentendo loro di scartare di lato rispetto al main stream, ma siamo sempre lì con il conto: il tutto può acquisire senso compiuto se l’approdo non è e non sarà un approdo a metà, cioé condizionato più dal metodo di vinificazione che non dall’essenza del vitigno e del territorio. Ecco, su questo piano molta strada è già stata fatta, ma altra ancora ne resta da fare.
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Succosa, snella, acida acida, beverina beverina, affilata affilata. Una Ribolla essenziale e filologica. O filologicamente essenziale.
Compassato e delicatamente agrumato, di moderata intensità ma di buona ampiezza gustativa, ecco un bianco dall’indole elegante e garbata la cui cremosità non si fa mollezza.
Piuttosto contratto aromaticamente, “secco e duro” senza concessioni, lascia pochi margini al non detto e alle sfumature di sapore.
Umorale e ruspante ai profumi, la sensazione bucciosa apre ad un gusto più estrattivo di altri, lì dove il timbro acido e citrino consente al vino di riprendersi quote di credibilità. Durezze assortite ne consigliano l’attesa.
Gioviale e spensierato, gioca le sue carte su agilità e freschezza, senza montarsi ulteriormente la testa. La trama, “savasandir”, è affusolata ma non tagliente.
Non troppo esplicita (ma va?) ma lineare e concreta, rilascia sapore e mostra continuità nello sviluppo. L’affidabilità è di casa.
Piuttosto tranchant nel finale, per il resto sono sentori fumé (non da legno), droiture, giustezza ed effetto rinfrescante.
Naso poco in risalto, solcato da lievi screziature non proprio fini. Ne apprezzerai la spinta acida ma, più che in altri casi, sentirai maledettamente la mancanza di “ciccia” e di sapore.
Succoso, equilibrato, portato al dettaglio, è una tattilità gradevolmente cremosa ad arricchire un andamento fresco e profilato.
Sia pur in riduzione, fra le pieghe della trama subodori un’annata più risolta rispetto alla 2017. Niente male la continuità, la spinta e lo spessore.
Austero ma di buona profondità, l’acidità fa da efficace contrappunto alla dolcezza del frutto, diretta discendenza di una maturazione calibrata e completa. Si distingue.
Colore ambrato da macerazione sulle bucce, suggestione floreale senza pesantezze, pulizia e accuratezza. Senti il sale, finalmente. Leggermente caldo ma molto piacevole. Soprattutto, non ostruito dai tannini.
Intriganti toni salmastri e iodati confermano una macerazione ben condotta. Il frutto maturo e “albicoccoso” contribuisce alla melodia gustativa, semmai è il coté più dolce -rispetto alla 2013- che potrebbe incidere sulla piena versatilità con il cibo e con la tavola.
Degustazione alla cieca effettuata a Gorizia nel mese di maggio 2018, nell’ambito di Enjoy Collio Experience.