I dolori del giovane Morellino

0
11889

Chi vi scrive ha avuto il piacere e l’onore di far parte della Commissione di Assaggio del Concorso Enologico organizzato in occasione della scorsa festa del Morellino in quel di Scansano. Ho degustato quindici Morellino annata 2017, con qualche riassaggio della triade selezionata in prima istanza dalla giuria composta da enologi, ristoratori, sommelier e rappresentanti della stampa. Etichette che si trovano adesso sugli scaffali, insieme ai primi esemplari del successivo millesimo 2018, in uscita.

Si è confermato quanto già sapevo, ovvero che la denominazione è uscita con dignità dal difficile cimento della torrida e arida annata 2017: le aziende hanno lavorato con criterio, vendemmiando con adeguato anticipo per mantenere un minimo di indispensabile acidità, selezionando in vigna con cura quanto mai severa, sfoggiando misura nell’estrazione tannica da bucce straziate dal calore: ne sono scaturiti vini che ovviamente (e non ne faccio una colpa), difettavano di profondità e slancio acido, ma certo conservavano una franca bevibilità.

Si conferma, quindi, un livello di consapevolezza ormai condiviso da tutta la DOCG, un’attenzione comune a produrre vini eleganti, di beva slanciata e appagante, un’eleganza che non si appiattisce sull’immediatezza del frutto ma al contrario se ne giova per creare una cifra stilistica del tutto particolare. Non posso ovviamente affermare che la relativamente limitata campionatura a nostra disposizione fosse esaustiva al 100%, ma quella è stata l’impressione; e se l’obiettivo dei produttori è effettivamente quello, il sottoscritto lo apprezza incondizionatamente. Peraltro, anche i disgraziatamente pochi assaggi che ho potuto fare in occasione della recente Anteprima dei Morellino 2018 alla Fortezza da Basso a Firenze confermano questo quadro.

Ma non è solo questo che vorrei commentare in questa sede, né lo stimolante confronto tra le impostazioni di assaggio di tecnici e sommelier (l’enologo, abituato a degustare work in progress, cioè campioni in divenire NON FINITI, cerca la magagna, ovvero il difetto da correggere con adeguato intervento in cantina; il sommelier, quando non saccente, si dedica alla ricerca delle qualità vere o presunte più o meno nascoste nel calice). Vorrei piuttosto soffermarmi su un tema emerso durante il piacevolissimo pranzo gentilmente offerto dal Consorzio del Morellino presso l’osteria Fiaschetteria Rurale, in via Marconi a Scansano, indirizzo quanto mai raccomandabile per l’atmosfera conviviale e la scelta della materie prime.

In buona sostanza, il Direttore del Consorzio di Tutela, i produttori e gli enologi presenti lamentavano un mancato riconoscimento della qualità diffusa della denominazione: che l’immagine del Morellino fosse sistematicamente associata all’idea di una beva spensierata, disimpegnata, ovvero che questo Sangiovese non possa a prescindere essere un vino “serio/importante”, e che gli sforzi di alcune aziende di produrre selezioni e Riserve di maggior ambizione fossero, almeno nel nostro paese, ignorati (che, per fortuna, il successo commerciale di queste etichette all’estero è consolidato).

Per traslato, la domanda associata a questi cahiers de doléances era la seguente: COS’E’ il Morellino? Qual’è la sua anima, la sua immagine, la sua naturale evoluzione, il suo destino?

Innanzitutto occorre rilevare che il Morellino sfugge ad ogni generalizzazione: è una denominazione GRANDE, oltre che come superficie vitata anche come estensione territoriale in quanto tale. Vi sono impianti praticamente al livello del mare o ad esso molto vicini, ed altri a 400 mt. slm con giacitura dei suoli e sbalzi termici completamente differenti. Inoltre, il disciplinare consente il generoso apporto di vitigni “migliorativi” (leggi internazionali), di cui alcuni produttori hanno ampiamente approfittato, snaturando un po’ la piacevole e ruspante freschezza di un clone di Sangiovese più noto per l’immediatezza di frutto che per la struttura (e non c’è niente di male in questo!).

E’ opinione personale che nella recente, sciagurata proliferazione di DOCG, il Morellino di Scansano ha la sua dignità e merita ampiamente lo status, più di altre attribuzioni per così dire “avventizie”. Ma ciò nella misura in cui una denominazione di origine trova la sua ragion d’essere non solo nel riconoscimento di una qualità diffusa, bensì nella definizione di una cifra organolettica legata alle caratteristiche di un territorio (pedoclimatiche e antropologiche, nel senso di interpretazione di quel potenziale di suolo e clima); la quale definizione a sua volta deve servire da guida e sprone alle aziende per innalzare il livello della loro produzione. In questo contesto, allora forse il disciplinare poteva essere scritto in maniera più specifica e cogente: forse sarebbe stato meno inclusivo, ma verosimilmente più utile. Purtroppo è storia vecchia, comune ad altre denominazioni e comprensori.

Ciò detto, non è un caso che si ponga stringente il problema di cosa è un Morellino di Scansano. Molti produttori (e il Consorzio) aspirano a che almeno le Riserve (qualifica come detto molto facilmente spendibile sul mercato estero) vengano percepite come vini “importanti”, in termini di struttura/complessità/potenziale evolutivo, quanto gli altri grandi Sangiovese toscani. Fatto salvo che esse costituiscono una parte minoritaria della produzione, in un periodo di consolidato riflusso verso le uve autoctone e gli strumenti che esse offrono per giungere all’espressione di un territorio nel calice, l’eventuale scelta di abbondanti tagli internazionali rischia piuttosto di omologare i vini all’indifferenziata palude dei supertuscans: immagine trita e ritrita che ha perso appeal proprio perché la ricerca di maturità spinte, di strutture debordanti e di morbidezze ha cancellato e cancella peculiarità più personali, legate non solo al vitigno (o vitigni) ma soprattutto al luogo ove essi vengono prodotti.

Si noti, qui non si sta parlando di piacevolezza del sorso in sé, e che nessuno misconosce la precisione tecnica di certe etichette. Ma il consumatore più o meno smaliziato adesso cerca qualcosa di più: complessità, equilibrio, personalità, anche se quest’ultimo termine è di inafferrabile definizione, almeno quanto quello famigerato di “qualità”. Quanta strada la denominazione debba fare per assestarsi su certi traguardi solo il tempo potrà dirlo, ma certo è che si tratta di un processo in divenire, sia che si scelga di esplorare più a fondo le potenzialità di un clone di Sangiovese oggettivamente diverso dagli altri, sia che i vitigni alloctoni vengano sfruttati per concretizzare una superiore eleganza. Di modo che la Maremma (anche attraverso la DOC omonima, ma quello è un altro discorso) possa divenire la nuova terra promessa dell’enologia toscana, non solo perché è più facile ottenervi uve MATURE, piuttosto perché questa maturità deve e può conferire qualcosa se non altro di meno stereotipato.

Ma veniamo al Morellino di Scansano annata, che ovviamente “fa i numeri” della denominazione: se una grande Riserva è un’aspirazione più o meno legittima e fattibile da realizzare, il mercato del Morellino annata è qualcosa con cui fare i conti tutti i giorni. Un’altra “rimostranza” dei miei interlocutori al tavolo da pranzo era che i prezzi che il Morellino spunta sul mercato non sono adeguati agli sforzi profusi per produrlo: poiché per giaciture dei vigneti, numero di ore di lavoro necessarie per gestirli, riduzione delle rese necessaria per ottenere un prodotto di qualità, e chi più ne ha più ne metta, il vino viene a costare quanto se non di più rispetto a bottiglie di altre denominazioni più blasonate ed adeguatamente prezzate.

Chi vi scrive non ha la pretesa di aver la bacchetta magica per cancellare questo eterno cruccio di produttori seri e sinceramente impegnati, e sarebbe “scabroso” affrontare tematiche commerciali imprescindibili (vedi proliferazione di certe etichette nella grande distribuzione a prezzi al dettaglio che piccoli produttori non possono permettersi). Comunque, in questo caso, mi pare sussista un problema di identità: se l’aspirazione è creare il “grande” vino, magari con la speranza che la sua percezione qualitativa funga da traino per la grande massa delle bottiglie della denominazione, detta massa rimarrà sempre residuale, se non nei numeri certo nell’immagine.

Mentre invece un buon Morellino ha vivaddio un atout in questo momento della storia del gusto particolarmente sfruttabile: SI BEVE BENE. E’ polposo ma non pesante, fruttato ma non banale, beverino ma non diluito, polivalente a livello di abbinamento cibo-vino. In un momento in cui il mercato ricerca vini che si approccino facilmente, ma “di soddisfazione”, il Morellino è ottimamente posizionato (tra l’altro, è il rosso toscano che meglio si fruisce d’estate, con buona pace di certi Chianti). Vi sono denominazioni che su questo hanno costruito la loro fortuna (Valpolicella, Bardolino, le varie DOC di Schiava in Alto Adige).

Questa caratteristica è quanto il Morellino ha di più e di diverso, non cuvée più ambiziose anche gradevoli che dovrebbero comunque confrontarsi con Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano, eccetera. Ma invece è come se il complesso della denominazione avesse vergogna delle proprie peculiarità, come se il godimento dell’immediatezza del frutto, la piacevolezza in quanto tale dovessero essere sostituite dal risultato di un processo più intellettualizzato; come se il successo della denominazione dovesse dipendere da vini più reticenti, più per addetti ai lavori, se si vuole. E con questo, di nuovo, non sto affermando che realizzarli sia impossibile, al contrario; ma piuttosto che svilire, per questa aspirazione, il carattere evergreen del Morellino come vino quotidiano di qualità superiore è un suicidio commerciale fatto e finito.

Ogni produttore di vino, ogni territorio, ogni denominazione si confrontano con un mercato globalizzato, variegato e ricco di nicchie ed opportunità, i cui spazi sono creati da quell’unicità che fortunatamente sempre più consumatori ricercano, stanchi come sono di prodotti standardizzati diffusi ovunque e ridotti, anche in termini di prezzo, a livello di commodity. Per il Morellino di Scansano non è ovviamente di questi ultimi che stiamo parlando (e i numeri non ci sarebbero nemmeno). Nel momento in cui la denominazione saprà individuare un obiettivo comune, una peculiarità da valorizzare (probabilmente quella bevibilità irresistibile non disgiunta dal succo e dalla “saporosità”, che ti fa stappare con gioia la seconda bottiglia), potrebbero aprirsi degli spazi di mercato del tutto inaspettati.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

Previous articleI “vini estremi” di Camillo Langone, tra ebbrezze e invettive
Next articleTerre di Toscana 2019, il dodicesimo grazie per un altro grande successo!
Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here