“Nel mio vino c’è vita”. Un ricordo di Gianfranco Soldera, signore del Brunello

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Ogni volta che lo chiamavo telefonicamente per concordare una visita avevo la sensazione di comporre un numero su una frequenza spazio-temporale diversa dalla nostra: Gianfranco Soldera rispondeva sempre entro il secondo squillo e, senza perdere tempo, mi diceva quando potevo passare. Una volta arrivati a Case Basse di Montalcino, ci salutavamo con calore senza troppi convenevoli, solcavamo la soglia di casa per due chiacchere al volo e poi via per una passeggiata meditativa di tre quarti d’ora nel giardino delle rose: due ettari di rose antiche curati dalla moglie.

Soldera non ha mai cambiato il suo schema di accoglienza ed ogni volta, proprio come un maestro di kung-fu, ripeteva sempre le stesse cose, faceva sempre le stesse mosse, rispondeva sempre nel solito modo. All’inizio, quando ero un po’ più giovane, dopo la quinta o sesta visita cominciai a spazientirmi della tiritera, fino a che, un paio d’anni più tardi, capii che il suo mantra era necessario per tenere il corso del suo lavoro senza distrazioni esterne.

Lui abitava lì a Case Basse, non si muoveva quasi mai se non per le vacanze con i nipoti (sempre nel solito posto) o per andare in qualche ristorante di fiducia. Stare fermo, in mezzo alle vigne, nella sua cantina costruita senza l’ombra di un solo centimentro cubo di cemento, ma solo terra, acciaio corten e roccia.  Forse perché sono sempre stato una trottola, ma andare da Soldera per me voleva dire fermare il tempo, rispettare il palato e ricominciare dall’abc.

Al termine della passeggiata ci fermavamo davanti allo stagno, per lui fonte di vita e biodiversità, per ammirare la cantina, che in quel momento sembrava un tempio buddista anche grazie alle sue forme architettoniche e alla vegetazione dello stagno.
Prima di arrivare nel vigneto era necessario passare la fase numero quattro del rituale: l’attraversamento dei cespugli di lavanda pieni di api e di qualche altro milione di insetti. Mi rendo conto oggi che ho sempre avuto la sensazione, ogni volta, di dover affrontare un test, una sorta di videogioco, nella speranza di non essere punto mentre lui procedeva tranquillo con la sua schiena ricurva, le sue bretelle e il suo cappellino da sole. Sono convinto che lo facesse per rendere palpabile il concetto di natura e biodiversità a chiunque lo andasse a trovare.

Finalmente si intravedeva la vigna: primo livello raggiunto! I dieci ettari di vigna allevati a cordone speronato sono circondati da colonnine per il monitoraggio microclimatico, i lavori in campagna tutti fatti a mano, incluso il passaggio del ramato quando richiesto (unica forma di lotta contro i parassiti usata a Case Basse) e mai oltre l’invaiatura, per rimanere scevri da trattamenti almeno 60 giorni prima della vendemmia. Nel caso di attacco da parte della muffa la risposta sarebbe stata un’attenta vendemmia verde e una selezione estrema prima della vinificazione. Contro gli insetti nocivi, invece, ovviamente il complessissimo ecosistema di Case Basse procedeva alla loro eliminazione grazie agli uccelli e agli insetti amici della vite.

Il lavoro in cantina, nonostante il supporto dei preziosissimi collaboratori di cui si circondava, era da lui diretto con fermezza e premura.  L’igiene era maniacale, ma gestita nel modo più intuitivo e semplice possibile, senza alcun composto chimico in alcuna fase del processo. Inoltre, a parte l’imbottigliatrice, la cantina era priva di qualsiasi altro macchinario.
Le botti grandi di Slavonia da 80 ettolitri erano mantenute sempre in ordine come scrigni preziosi in un ambiente salubre con 12°C e 90% di umidità, garantiti dalla presenza delle pareti naturali del sottosuolo, tenute assieme da una rete metallica a protezione.
Una volta gli chiesi se dopo qualche anno le facesse asciare, lui mi rispose che quando una botte arriva a quel punto lì non si ascia ma si butta via: “lavo le mie botti con acqua calda, soda, una spazzola e olio di gomito ad ogni travaso. Quando sento che c’è qualche odore sbagliato che non va via, le botti vanno in pensione”.

Gianfranco Soldera non era un uomo facile, lo sanno tutti, anzi era un vero e proprio attaccabrighe, ma se non si cadeva nella trappola della lite fine a sé stessa lui non smetteva di raccontare, però era necessario continuare a porre domande, una dietro l’altra, era insaziabile!

Mi viene da pensare che a volte ci scervelliamo per cercare di capire alcuni fenomeni e spesso ci confondiamo nella complessità di una parte soltanto di essi, perdendo di vista la struttura base di ciò che stiamo studiando. Anche nel vino è così, e talvolta  – siano essi giornalisti, assaggiatori od enologi –  ci focalizziamo su un solo aspetto, senza tenere il contesto a portata di mano.
Soldera: “il vino è il risultato di un processo naturale che deve essere rispettato. Non si cimano le piante, non si spinge la fermentazione, si segue e si ascolta cosa la natura chiede. A volte la fermentazione alcolica spinge oltre i 36°C, eppure i lieviti naturali che sono qui da 36 anni sanno come comportarsi e la fermentazione non si arresta”.
Le sue parole talvolta possono sembrare semplicistiche, ma quando poi si scopre che dietro quella apparente immediatezza ci sono gli studi di almeno due dipartimenti universitari che lo seguivano tenendolo aggiornato sugli andamenti climatici e sulle condizioni microbiologiche del proprio vino dalle botti fino alla bottiglia, il discorso cambia!
Nelle mie botti il vino trascorre fino a sei anni e sappiamo con certezza che lì dentro c’è vita microbiologica per molti anni: nel mio vino c’è vita”.

Poi arrivava il momento della sua domanda: “cosa vuoi assaggiare?” Lui non sceglieva mai la botte o l’annata. Per lui ognuna era l’espressione di qualcosa di diverso e che andava comunque ascoltato e rispettato. Gli chiedevo generalmente di poter assaggiare almeno 3 o 4 annate ogni volta, per tenere traccia dello sviluppo del vino.
I profumi di fragola di bosco, la scorza d’arancio, la grafite e poi il melograno succosissimo in bocca, il tannino disteso, la trama levigata come una scultura di Brancusi. E poi un’energia che rendeva impossibile sputare il vino, pratica comunque severamente vietata nella sua cantina, ciò che avrebbe di fatto sancito la conclusione dell’incontro con il maestro. Tra i ricordi indelebili c’è anche la “lucentezza” del suo Sangiovese, che superava sempre tranquillamente i 6gr/l di acidità con un pH sotto i 3,4. Con lui è stato sempre così, anche quando andavano di moda vini con acidità inferiori e pH più alti per renderli rotondi e affabili.

L’allenamento di kung-fu del Sangiovese a questo punto si spostava con sicurezza verso il Ristornate il Leccio di Sant’Angelo in Colle, oppure da Silene sulla strada per il Monte Amiata, dove i ragionamenti continuavano a tavola, davanti a un Brunello in “carne e ossa”. Spesso bevevamo l’annata corrente ma qualche volta ci spingevamo in una verticale improvvisata o in confronti con qualche vino famoso portato in sfida a Case Basse: “quello che viene bevuto prima è il vino più buono“.

Il suo vino veniva bevuto sempre prima degli altri, anche perché credo tutti si affrettassero a berlo per non contraddirlo! Soltanto una volta un Taurasi Mastroberardino ’68 terminò prima di un La Tache ’91 di DRC e di un suo Brunello 1983. Ma anche di fronte all’evidenza Gianfranco non si rassegnava: “avete visto? Il mio vino è terminato prima degli altri!”.

Filippo Bartolotta

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