Valtellina Superiore Sassella Vigna Regina 1999 – AR.PE.PE
Dentro questo bicchiere esplode il carattere arioso e roccioso del grande nebbiolo di montagna, così diverso tanto da quello più caldo e affusolato delle Langhe, quanto da quello più austero e infiltrante del Nord Piemonte. Per certi versi è sintesi di ambedue, con in più quella succosità fitta di sprezzature, quei toni sapidi per non dire salini, quelle filigrane aromatiche che solo i grandi rossi di montagna sanno offrire.
Da uve chiavennasca inerpicate tra i 450 e i 500 metri di altitudine, macerazione in tini di legno da 50 ettolitri per una quarantina di giorni, maturazione per quattro anni in botti di uguale capacità, e un po’ di riposo in cemento per un vino pulsante, cangiante, balsamico da morire, che trafigge e seduce. Ci sono tutte le erbe della montagna, i profumi della menta, quel tannino graffiante e compatto che dona ampiezza e verticalità. Questo rosso valtellinese traboccante personalità e prodotto da Emanuele e Isabella Pelizzatti Perego si chiama ora Nuova Regina. Che dire? Lunga vita!
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Barolo 2004 – Bartolo Mascarello
La sottigliezza della trama, il sussurro del tannino, la via del nebbiolo tutta in levare: così il Barolo di Bartolo Mascarello è rimasto nel cuore e nella mente di molti. Il 2004 è stata l’ultima vendemmia idealmente vissuta dal patriarca, scomparso nel marzo dell’anno dopo. Ma da tempo questo vino è interpretato dal talento della figlia Maria Teresa, capofila delle giovani donne del Barolo e del Barbaresco che oggi contano su un nutrito parterre. Il tempo sembra ancora fermarsi al numero 19 di via Roma: l’azienda è a dimensione “monofamiliare”, non ha il sito web, fino al 2006 le fatture venivano battute a macchina e fino al 2008 si etichettava a mano. Del resto, fino al 1989 (annata straordinaria per i nebbiolo di Langa), in casa non c’era nemmeno il telefono.
Il Barolo Mascarello, oggi come ieri, è rimasto fedele a se stesso, con una vinificazione tradizionale lontana non diremmo dalle mode (parola qui decisamente impropria, per non dire anacronistica), ma dalle macerazioni brevi e dai legni piccoli sul modello ormai codificato dei cosiddetti “Barolo Boys”. Ed è rimasto resistente all’imbottigliamento per cru: qui si produce da sempre un Barolo che è assemblaggio di vigneti, nello specifico Cannubi, San Lorenzo, Rué, Rocche, come trascritto in etichetta. E questo vino, oggi come ieri, è tutto un gioco di trasparenze, di ricami, di sfumature.
Erano almeno una decina d’anni che giaceva in cantina, gentile omaggio della famiglia Ippolito, e non dubitavo, avendo avuto la fortuna di assaggiarne già altri di quel decennio, del carattere e della bontà di questa riserva speciale prodotta dalla cantina più antica di Calabria, fondata da Vincenzo Ippolito nel 1845 e una delle più importanti della zona di Cirò. Il nome di questa Riserva pare derivi da una coppia di falchi che vivono, o vivevano, nel bosco accanto al vigneto, o cru, del Mancuso, da dove arrivano le uve di gaglioppo, che nascono da vigne di una cinquantina d’anni a poche centinaia di metri dal mare.
Terreni limoso-sabbiosi, basse rese, vendemmia ottobrina, un anno e mezzo di tonneau e uscita sul mercato a una decina di anni dalla vendemmia. Il risultato è un rosso che traduce tutto il calore di questo assolato angolo del Mediterraneo in uno spigliato, gagliardo vino che sa di frutta matura e di mare, dove la ciliegia sembra essere intinta nell’acciuga, dove il tannino comincia a farsi terroso e l’allungo è screziato da ampie desinenze gustative.
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Lagrein Riserva 2016 – Nusserhof
Quando si dice l’interpretazione. Si conosce la tendenza del Lagrein a essere un rosso dal colore fitto, dal tatto denso, dal tannino non sempre gentile, dalla personalità esuberante. Ecco, niente di tutto questo accade in questa Riserva firmata da Heinrich Mayr con la moglie Elda e la figlia Gloria nel loro maso della parte sud-orientale di Bolzano, un’oasi-giardino di pochi ettari che unisce vigna, frutteto e altre specie vegetali, tutti a coltivazione biologica. Macerazione di quattro settimane, trenta mesi in botte grande da 20 ettolitri, lungo affinamento in bottiglia. Il colore è più rubino che porpora, il naso è allietato da sentori di frutta (la ciliegia, la mora), impreziosito da raffinatezze floreali, punteggiato da sensazioni di sottobosco, il palato è succoso, trepidante di frutto (amarena e lampone), il tannino un soffio, il floreale un afflato. Fresco, piccante, elegante, viscerale. Una bontà, come, se non ancora di più, il Gloria, dedicato alla figlia: un Lagrein lirico prodotto dalle vigne più vecchie con rese minuscole, fermentazione a grappolo intero in acciaio e maturazione in botte per tre anni.
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Teroldego Rotaliano Dannato 2011 – Redondèl
Non c’è lagrein senza teroldego, verrebbe da dire, visto alcune analogie tra i due vitigni e la loro vicinanza geografica (anche se le differenze varietali, pedologiche, climatiche e produttive tra i due sono molteplici). Ecco dunque un Teroldego Rotaliano fuori dagli schemi come il precedente Lagrein. Lo produce Paolo Zanini nel Campo Rotaliano, dove conduce sette appezzamenti – lui li chiama “sette giardini” – sui due versanti del torrente Noce: Redondèl, da cui il nome aziendale, Vignai, Pasquali, Pozze, Morei, Rusca e Pradi. Poco più di tre ettari con vigne comprese tra i 25 e gli 80 anni. Paolo scrive che fa vino «perché a nove anni mio padre mi svegliava all’alba per accompagnarlo nelle vigne; perché a quattordici ho compiuto le prime potature ed è stata gioia, come i regali la mattina di Natale; perché non saprei fare altro e ne vado orgoglioso: quando sono tra le mie vigne mi sento a casa, più di quando lo sono nella realtà».
Più che un manifesto di vita o una poetica di produzione, la confessione di una vocazione. Il Dannato 2011 ha un tripudio di erbe officinali e spezie come è raro trovarne nella tipologia: china, genziana, cardamomo… Il palato è succoso e agile, pieno e dinamico, contrastato e pimpante, con finale ancora sulla spezia (chiodi di garofano) e sulla freschezza balsamica delle erbe. Che carattere!
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Ilmerlot 2009 – Ca’ del Bosco
È un Merlot. Prodotto, oltretutto, in Franciacorta. Ed è davvero un buon vino. Dopo essere diventato il grande paladino degli anni Novanta, questo vitigno, noto per la sua proverbiale capacità di adattarsi a tutti i principali microclimi e terroir del mondo, è ora messo al bando dai puristi dell’autoctono a tutti i costi. Bene, benissimo, più che comprensibile. Ma le battaglie di principio, ancorché lodevoli, dimenticano spesso qualcosa per strada, e quando questo accade sulla strada del vino è spesso un peccato. A tutti gli scettici che bevono solo bordolesi italiani di altura e mezza altura, quando non solo di Toscana, consiglio dunque l’assaggio di questo 2009. Perché lo produce, solo in alcune grandi annate, Ca’ del Bosco, un’azienda “mainstream” che non smette di stupire per come riesce a interpretare il suo territorio anche con i vini fermi e rossi, ché parlare, e tessere le lodi, dei loro Franciacorta è sin troppo facile. Da tre vigne ubicate tra Cazzago San Martino e Passirano con rese molto contenute, uve raccolte a mano e lavate, vinificazione per gravità, sia dall’alto (acini introdotti nei tini per caduta, evitando il pompaggio che è spesso causa della rottura delle bucce e delle conseguenti note erbacee), sia dal basso (rimontaggi con l’uso di serbatoi-ascensori), passaggio di 12 mesi in legni piccoli, nuovi per poco più della metà, e soprattutto ben 5 anni di bottiglia prima della commercializzazione, affinamento che in pochi possono permettersi. L’alta tecnologia sposa la qualità: è un Merlot modulato, flessuoso, fruttato senza essere superficiale, speziato senza essere ammiccante, capace di offrirsi a più riprese e in più giorni a contatto con l’ossigeno senza mai banalizzarsi o disunirsi. Nulla è lasciato al caso, come testimoniano il perfezionismo di Maurizio Zanella o l’acribia dell’enologo Stefano Capelli.
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