“Nel suolo delle grandi foreste di equiseti del carbonifero, non vi erano né lombrichi, né acari, né collemboli. Tale assenza di fauna, dovuta alla tossicità della lettiera, faceva sì che quest’ultima si decomponesse con grande lentezza. Il ruolo della fauna è quello di frantumare i resti vegetali riducendoli a elementi minutissimi attaccabili dai microbi. Se tale frantumazione non avviene, i microbi impiegheranno anni per attaccare i grossi resti delle piante rimaste intatte… Questo scarto tra il deposito delle lettiere e la loro decomposizione sta all’origine delle miniere di carbone e dei giacimenti di petrolio”. Ecco come Claude e Lydia Bourguignon, agronomi francesi, nel loro libro Il Suolo un patrimonio da salvare (Slow Food Editore, 2010), descrivono la formazione di quel materiale inerte che sono i giacimenti di carbone e petrolio. La dispensa di energia ha permesso la grande abbuffata dell’umanità, la quale, dalla rivoluzione industriale alle grandi scoperte sulla chimica organica, ha scelto di allearsi con il petrolio anziché con il sole.
Non tutta questa lettiera si è trasformata in oro nero. Nel processo millenario qualcosa è rimasto indietro, un elemento scuro, umido a metà tra la vita e la morte: la torba (peat in inglese). Tale miscuglio di piante e carcasse di animali decomposti, intriso d’acqua, al quale l’acidità dell’ambiente non ha permesso di completare il suo ciclo, ha avuto nella storia contemporanea plurime destinazioni tra cui quella di concorrere, attraverso la combustione, alla realizzazione di uno stile di whisky affumicato e caratteristico che ha conquistato il mondo degli appassionati.
Il calore derivato dalla bruciatura della torba serve ad essiccare l’orzo dopo la germinazione, il fumo denso impregna delle proprie essenze il chicco maltato fissando un corredo aromatico molto caratteristico, affumicato e iodato, che accompagnerà per il resto del viaggio il cereale fino allo spirito in bottiglia. Non è un caso che proprio la remota isola di Islay, nell’arcipelago delle Ebridi interne, sia stata la culla di questo stile. La sua posizione, lontana dagli esattori delle tasse scozzesi, la sua origine geologica, fertile all’interno e con copiose torbiere vicino al mare, e la disponibilità di acqua purissima, furono le condizioni ineludibili per produrre malti dal carattere unico.
Peated, ossia di torba, si chiama la generazione di whisky affumicati e salini che rappresenta un mondo a parte nell’universo degli spiriti, un mondo tutto da scoprire. Per questo quando ho intercettato una degustazione organizzata dal team del Milano Whisky Festival insieme ai ragazzi del sito WhiskyFacile (www.whiskyfacile.it) dal titolo The peat experience, rigorosamente a casa e in diretta on line, ho aderito con trasporto. Un’iniziativa lodevole nell’ambito del mantra #iorestoacasa che ha permesso di passare un paio di ore, dalle 21 in poi, didattiche e divertenti.
Ecco la selezione:
Glen Moray Peated Single Malt 40 % Vol.
Note di assaggio:
Al limite della diluizione, rivela una gradevole traccia sapida. Poco complesso, con note di erica e lieve affumicatura. Si perde troppo presto lasciando soddisfatti a metà.
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Caol Ila Distillers Edition (2006/2018) 43% Vol.
Note di assaggio:
La concentrazione sapida impressiona e rimanda a splendidi aromi agrumati e marini, classici per questo spirito. Non convince la chiusura troppo amara, che cozza contro la tendenza dolce (marzapane) del centro bocca. Alcol poco integrato.
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Lagavulin Distillers Edition Double Matured (2001/2017) 43% Vol.
Note di assaggio:
Potente, concentrato e consistente. Questo pachiderma alcolico conserva una inaspettata eleganza grazie una trama di sale intrigante che lo salva da una banale opulenza dinamica, ma non può esimerlo dalla critica sull’artificiosità della tendenza dolce, a tratti stucchevole.
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Kilchoman Loch Gorm (2009/2014) 46% Vol.
Note di assaggio:
Il più reticente a farsi apprezzare, ma l’attesa vale la pena. Secco l’impatto per un liquido che non vuole compromessi. Rigido e salato, quasi spigoloso, inizia lentamente a rilasciare aromi sulfurei, cerino appena spento, e balsamici. Poi regala un sentore meraviglioso: conchiglia su spiaggia assolata, cenni di alga bagnata e frutta rossa a profusione. L’iniziale rigore evolve in una traccia materica dritta, piena di sale e di sapore. Devo dire proprio nelle mie corde gustative.
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The Glenlivet Nadurra Peated Whisky Cask Finish 61,8%
Note di assaggio:
La gradazione piena, in questo caso, non aiuta l’assaggio. L’alcol è caustico e sembra un liquido scombinato; dalla chat dicono che con l’acqua migliora sensibilmente. Avverto frutta semplice come pera o susina bianca. Mi ricorda l’amata țuică rumena e so che non è un complimento per l’ambizione di questo spirito. Il frutto si schiarisce leggermente con l’ossigeno ma rimane semplice all’olfatto e grezzo al palato.
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La mattina dopo
Sono andato a letto lasciando bicchieri e campioni aperti sulla scrivania. Mi sveglio in forma e, appena entrato nello studio, vengo accolto da un abbraccio odoroso straniante; mi sembra di essere su una spiaggia fra profumi di elicriso, sabbia calda e dolcezza frammista di vaniglia. Infilo di nuovo il naso in ogni bicchiere e leggo le note di degustazione: tutto confermato. E il quarto bicchiere, rispetto agli altri, ha l’effetto di quelle conchiglie che avvicini all’orecchio per sentire vicino il mare.