La Borgogna sul pero

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Quando di questo vino mi hanno svelato il prezzo sul mercato sono cascato dal pero, basìto da stupor mundi.
Intendiamoci, non è che sia così ignaro dell’enorme bolla speculativa di cui sono stati fatti oggetto i vini di Borgogna, assurgendo all’antipaticissimo status di un Rolex o alla inarrivabile esclusività di un lapislazuli.
Ma un conto è parlarne così, en passant, e un conto è toccare con mano, esperire, misurarne le possibili conseguenze.

Le conseguenze qui posseggono un nome dall’aura leggendaria (Georges Roumier) e la fisionomia di un meccanismo liquido di alta precisione, dove scrupolo, nitore e consapevolezza tecnica appaiono persino chirurgici.

E’ ancora bambino, Clos de la Bussière ’18 di Roumier, e lo senti.
Quel che non ci ho sentito, semmai, è un’anima da pinot noir così conclamata, e quelle farfalle nello stomaco di quando di fronte a te si dispiega la grazia e finalmente hai capito cos’è.

E questo dal momento in cui avrei potuto ben confonderlo, chessò, con un giovane nebbiolo “gastronomico” di Langa, uno di quei tipi longilinei la cui materia sia stata estratta da una mano sensibile per ricavarne, del tannino, una eco più che una effettiva presenza.
Oppure, più appropriatamente, con un Gamay, che a dirlo a un qualsivoglia produttore borgognotto sarebbe come offenderlo a morte.

La fragranza ineccepibile di frutto e fiore, l’andamento “dolcettoso”, la piega accomodante e vanigliata di una doga amorevolmente tostata ti fanno capire la millimetrica misura di uno stile, senza però concedersi un’ombra di complessità. Quantomeno ora, quantomeno qui.

Intanto io risalgo sul pero ad attendere nuove cadute, o il rimarginare del tempo per le mie ginocchia ferite.

FERNANDO PARDINI

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