Le feste di fine anno sono trascorse nel modo più sereno: assalti armati alla più grande democrazia del globo; un capo di stato uscente già chiaramente decerebrato e ora del tutto demente (con il piccolo particolare insignificante del possesso della valigetta con i codici di lancio degli ordigni nucleari). Più in sedicesimo, qui da noi, alcune raffiche di scorreggine a minacciare una crisi di governo totalmente incomprensibile; disoccupazione, angoscia per il futuro, rischi di rivolte; e su tutto, come ciliegiona sulla torta, una pandemia planetaria (che è ovviamente un pleonasmo).
In questo quadro rassicurante ho avuto modo di stappare diversi vini, ma darne un resoconto completo qui sarebbe noioso. Meglio scremare: ecco le note su quattro vini, due nuovi e due tradizionali.
Il nuovo
Le aziende vinicole nuove hanno questo di bello: sono nuove. Non ti snobbano se chiedi una visita, non ritengono – tranne casi rarissimi di megalomania – di essere le migliori case vinicole della zona e d’Italia, nei loro siti internet non esiste la pagina “premi e riconoscimenti”. Certo, per converso non puoi chiedere loro una verticale dei vini per farti un’idea più articolata dello stile produttivo e del carattere della singola cuvée. Devi andare a intuito e capire se c’è della stoffa, come si diceva negli anni Cinquanta.
La disposizione dell’assaggiatore deve essere equanime, né troppo critica né troppo condiscendente. Aspettarsi troppo dalle prime prove di un giovane produttore è inutilmente severo, mettere tra parentesi incertezze o veri e propri sfondoni (come quando ti viene offerto un Grignolino color melanzana scuro che al sapore ricorda un Canon-Fronsac) è parimenti fuori luogo.
Più interessante l’esito del Pinot Grigio, alla vista un rosato a tutti gli effetti, al naso – dopo una riduzione iniziale abbastanza tenace – salmastro e grintoso, al palato salino, incisivo, un po’ rustico ma facile da bere.
Devo ancora provare il Lagrein.
Il tradizionale
Le aziende vinicole tradizionali hanno questo di bello: sono tradizionali. Hanno una lunga storia alle spalle e sanno come accogliere (escludendo i produttori stronzi, purtroppo non così rari) i visitatori che arrivano in cantina. All’occorrenza, se gli stai simpatico e se hanno tempo, possono stapparti decine di vendemmie diverse di un singolo vino. La loro memoria storica è preziosa.
Un profilo che si attaglia alla perfezione alla grande firma langarola Giuseppe Cortese, a Barbaresco. Fondata in un anno particolarmente fortunato per le vigne del territorio, il 1971, fa rossi talmente buoni e conosciuti dagli intenditori che non ha bisogno di ulteriori presentazioni. Negli ultimi anni le estrazioni si sono fatte ancora più mirate, lo stile è divenuto ancora più puro e quintessenziale.
Il Dolcetto d’Alba 2019 è una delizia: frutto nitido e succoso, straordinaria naturalezza nel flusso gustativo, finale per nulla amaro, anzi fresco e slanciato. Ancora più impressionante il Rabajà, augusto cru famoso nella letteratura classica per far nascere Barbaresco monumentali, estrattivi, profondi, “baritonali”. Il 2017 è, al contrario, inaspettatamente aereo, lirico, snello, agile. Somiglia più a un bel Nebbiolo d’Alba. Solo la parte conclusiva dell’assaggio ne svela le risorse in termini di intensità tannica (sempre in ogni caso non poderosa) e di persistenza gustativa, lunghissima.
Un vino magnifico, che sembra avere alcuni decenni di vita davanti. Ciò che gli consentirà di vedere, forse, un periodo storico migliore di questo.
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L’immagine di Giuseppe Cortese è stata estratta dal sito aziendale