La celebre sentenza enoica di Engels, “sempre pronto a un vino vecchio e a un’idea nuova”, un tempo mi garbava molto. La ripetevo difatti quasi a ogni incontro, degustazione, banco d’assaggio, presentazione di libri in cui mi toccasse di dire qualche parola su un’annata storica di una qualche casa vinicola. Ma ora che non sono più giovane sono tenuto per obbligo di legge alla visione reazionaria della terza età, e quindi il pluricitato aforisma non mi torna più. Direi anzi che mi sento irresistibilmente spinto a rovesciarlo di significato. Oggi mi sento sempre pronto a una vecchia idea e a un vino nuovo.
Per vecchia idea intendo ogni richiamo nostalgico allo stato delle cose di venti o trent’anni fa, per quanto discutibili o schifose le cose mi sembrassero all’epoca. La merda del passato non ha più alcun odore.
Per vino nuovo intendo invece un vino che non conosco, o ancora meglio un vino di un’azienda che ha appena iniziato a coltivare la vigna e a fare vino.
Si dirà: siccome oggi pressoché tutti fanno vino – dal calciatore all’odontotecnico, dal ceramista al venditore di parrucche – è facile trovare case vinicole appena nate, e quindi validi vini nuovi. Non è mica detto. Le etichette mai viste prima non mancano di sicuro, però di solito al 70% sono molta fuffa e poca sostanza: ingaggio di enologi famosi, grande profusione di mezzi nel design delle bottiglie e nella grafica, scelta di nomi pretenziosi, liquido finale insignificante.
Non è il caso del Pantelleria Bianco Filì della piccola azienda I Praie di Caterina Ferreri, che imbottiglia da poco pur provenendo da un’attività familiare pluridecennale nella viticoltura. Segue la produzione il marito della titolare, il quasi ottantenne Filippo (bene, no? così si ossequia il cliché molto amato dagli enofili del vecchio contadino), affiancato dal figlio Gianfranco. Poche parcelle di vite, sparse in sette diverse località dell’isola (su tre ettari complessivi di proprietà); una coltivazione molto tradizionale delle piante di zibibbo, classicamente tenute ad alberello in conche scavate nel terreno per proteggerle dai venti sferzanti che battono Pantelleria tutto l’anno; una vinificazione semplice, direi – per quanto mi è stato detto – elementare.
Questi scarni dati di partenza danno vita a un bianco “secco” di sorprendente piacevolezza, in cui la spinta aromatica dello zibibbo, che uno si aspetta decisa e magari sopra le righe, è appena una pennellata olfattiva. Anche al palato non si coglie alcun eccesso stucchevole moscateggiante, anzi la propulsione del sapore viene da elementi non dolci: una bella corrente salina e una calibrata freschezza dell’acidità. Non il solito bianco da uve aromatiche, perciò. Questa descrizione encomiastica si riferisce alla singola bottiglia di 2020 che ho potuto provare, anzi bere. Essendo la produzione molto artigianale, non è ovviamente detto che i vini a venire si muoveranno sullo stesso livello qualitativo. Ma personalmente sono fiducioso.
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