Un Blend di suggestioni. Bellenda, l’agroforestazione e altre storie

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Conosco Umberto Cosmo da molti anni, da quando era presidente del Consorzio Colli di Conegliano (sulle colline orientali della Docg, per chi ancora non lo sapesse, si producono anche vini fermi – bianchi e rossi – e due preziosi passiti: il Torchiato di Fregona, bianco, e il Refrontolo Passito, rosso) e non aveva ancora quella barba bianco d’inveterato alpino che si è fatto crescere negli ultimi tempi.

Spirito curioso, colto, cosmopolita, Umberto ha girato mezzo mondo (anzi, i suoi tre quarti), ha una casa piena di libri – tra cui parecchi volumi della Biblioteca della Pléiade Einaudi-Gallimard e dei Meridiani Mondadori, due collane che amo – custoditi nelle teche della sala e impilati nelle librerie in legno del corridoio, ha una passione autentica per la cucina (dai piatti della tradizione veneta a quelli del Sol Levante conosce pressoché tutto, da gourmet incallito ha visitato gran parte dei ristoranti italiani e internazionali, ed è inoltre un bravo cuoco) ed è un uomo del vino a tutto tondo.

Classe 1961, nativo di Vittorio Veneto – anzi di Ceneda, come tende a rimarcare con un certo orgoglio (per i suoi “nativi” è il quartiere più nobile della città, più ancora, a sentire loro, di Serravalle, che pure è di bellezza assoluta) –, studi classici e una laurea in scienze della produzione animale, Umberto dirige da tempo con il fratello Luigi, enologo, l’azienda di famiglia – Bellenda ­– situata sulle colline di Carpesica e fondata dal padre Sergio nel 1986. L’amore per le bollicine, e le frequentazioni della Champagne, lo hanno portato a sperimentare tutte le potenzialità della glera del suo territorio, quello del Mandamento di Conegliano, dalle versioni spumantistiche classiche (il San Fermo Brut e l’Extra Dry Miraval in autoclave) a quelle al contempo storiche e sperimentali (il metodo classico dell’S.C. 1931 Pas Dosé e quello all’avanguardia del Lei Dry, il Sei Uno Rive di Carpesica Extra Brut rifermentato in bottiglia) fino al frizzante “col fondo” del Così è e all’“ancestrale” del Metodo Rurale nella vecchia bottiglia da osteria da un litro, passando poi alle versioni più “internazionali” del Blanc de Blancs (il Saiph Extra Brut e il Würm Nature) e del Blanc de Noirs (Pluck Brut Nature).

Di più: infaticabile viaggiatore (perfino in sidecar, con il quale ha fatto un lungo viaggio nel Caucaso), Umberto ha pazientemente costruito una preziosa, personalissima importazione di vini dall’amata Vecchia Europa, scoprendo territori sconosciuti o poco celebrati, dall’isola di Santorini alla Croazia e alla Rueda, in Francia il Jura, il Perigord, il Roussillon, senza naturalmente dimenticare Champagne, Loira, Alsazia.

Nel tempo, un tempo che ho avuto il piacere di conoscere, Bellenda è diventata un luogo di bellezza e cultura. Alla prima è da ascrivere il regno incantato di Alice Relais nelle Vigne, custodito e gestito da Cinzia Canzian e Pier Francesca Bonicelli, produttrici di vino e mogli di Umberto e Luigi: un casolare dell’Ottocento magnificamente ristrutturato in perfetta posizione panoramica (la conca vitata, le colline dei dintorni punteggiati dai campanili, le Prealpi venete) che è un modello di stile ed eleganza nella cura dei dettagli, nel comfort delle stanze, nella scelta degli arredi, nella mise en place di una colazione capace di farti rinascere.

credits Bellenda

La seconda si svolge negli ambienti sobri e raffinati di Cucina Madre, uno spazio polivalente adibito a corsi di cucina ed eventi. Tra questi ultimi, è andato in scena lo scorso ottobre la quarta edizione di Blend, un convegno-convivio dedicato al tema, originale, dell’Agroforestazione (i precedenti sono stati “Contenuto e contenente”, “Natural-mente”, “Produttori e clima”). Oltre a Umberto Cosmo, padrone di casa, che anche questa volta si è tolto, letteralmente, qualche sassolino dalla scarpa (lo fa realmente, togliendosi dalla calzatura un sasso di tutto punto con una pantomima ormai divenuta proverbiale e capace d’innescare spunti di riflessioni e intelligenti provocazioni), il dibattito, moderato con la consueta verve dal giornalista Antonio Paolini, ha visto come relatori-interpreti Sabrina Tedeschi (Tedeschi Wines), Pietro Pellegrini (Pellegrini Spa), Rossana Roma (Ristorante Dolada), Andrea Cartapatti (Blu Hotel Spa) e Giuliano Vantaggi (Associazione per il Patrimonio unesco delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene).

Diversi gli spunti degni d’attenzione su un tema che diventerà attuale: sistemi agricoli promiscui che prevedono la combinazione di coltivazioni arboree o arbustive nonché di allevamenti o pascoli negli appezzamenti aziendali. Più o meno quello che una volta facevano i contadini nelle terre dei loro casolari.

credits Bellenda

«L’agroforestazione va oltre l’agricoltura biologica, si basa sulla biodiversità, sul concetto di equilibrio ambientale e olistico. Oggi abbiamo abbandonato le produzioni consociate a vantaggio della monocultura» dice Umberto Cosmo, che auspica, insieme ai suoi ospiti, una certificazione ambientale a basso costo (la sostenibilità, certificata da società private, ha costi non indifferenti per le aziende di medio-piccole dimensioni), di cui sia portavoce il Consorzio del Conegliano Valdobbiadene. La tutela del territorio e dei suoi elementi primi non è più differibile ed è un requisito indispensabile per accedere ai mercati stranieri. «All’estero prima ti chiedono come si coltiva la vigna, poi come si produce il vino e solo dopo averlo assaggiato quanto costa. In Italia è esattamente il contrario».

Sabrina Tedeschi, nota produttrice della Valpolicella: «Sui 99 ettari complessivi di terra che possediamo, 54 sono a bosco. Abbiamo analizzato e certificato la nostra biodiversità e lo stato di salute dell’aria, dell’acqua e del suolo. Bisogna raccontare la sostenibilità».

Rossana Roma parla della coltura delle api, «cartina di tornasole dello stato di salubrità di un territorio perché le api non ti permettono di fare trattamenti antiparassitari», degli orti e dei vigneti del Dolada.

Pietro Pellegrini parla degli impianti fotovoltaici, delle necessità di avere più piante e meno parcheggi, e di più informazioni territoriali e ambientali per comunicare, acquisire e vendere se non un vino necessariamente più buono, senz’altro più sano.

«L’agroforestazione produce stabilità ed equilibrio tra le varie annate» afferma Eric Coulon, produttore di Champagne che ha tra le sue vigne flora indigena e alberi autoctoni.

«Ho cominciato a rivedere le raganelle, le lucciole» dice Umberto.

Accompagnati dai manicaretti di Chiara Barisan del Salis di Valdobbiadene e di Paolo Ferralasco dello Zupp di Genova, si sono poi succedute una serie di suggestioni enoiche. La bontà e la complessità, ad esempio, dello Champagne Esprit de Vrigny Premier Cru di Coulon (taglio alla pari di chardonnay, pinot noir e pinot meunier), una cantina che conosco da anni e che negli ultimi anni ha portato i suoi vini a un’espressione sempre più precisa e compiuta.

Flashback. Tempo fa Bellenda aveva organizzato una degustazione dei vini della maison al ristorante Iyo di Milano. Già allora, circa un anno prima, Eric aveva parlato del progetto delle erbe, degli alberi da frutto (piantati con il nocciolo), delle pecore al pascolo e delle api da ospitare in mezzo alle sue vigne, definendolo «un inno alla biodiversità».

In quell’occasione avevamo assaggiato oltre agli Champagne della casa (l’Hommée Premier Cru, un vino che negli ultimi tempi ha fatto un balzo considerevole in termini di definizione e sottigliezza; Les Haute Partas Blanc de Blancs 2014, primo millesimo da una parcella di Chouilly acquistata nel 2012, un’esplosione di noisette e frutta secca, una convergenza di evoluzione e souplesse; il Blanc de Noirs Extra Brut 2012 sboccatura 2020, 50% pinot noir di Vrigny e 50% di pinot meunier di Guex piantati a piede franco nel 1959, una fragranza d’agrume e uno spirito iodato, con persistenza lunga e salina), anche il Coteaux Champenois Coulommes Rouge Le Mont Moine 2018, 500 bottiglie da uve di pinot meunier pressate a grappolo intero e provenienti da una vigna di cinquant’anni su un pendio esposto a sud in un villaggio della Montagne de Reims. Colore rubino granato, spiccate note di frutto di bosco, sfumature di erbe officinali, bocca turgida, sensazioni speziate, sviluppo nitido, croccante, puro.

C’è un altro flashback, più recente, che risale alla scorsa estate. Terrazza della locanda La Candola a Pieve di Soligo, qualche ora dopo il tramonto con una delle rare bottiglie dello Champagne Synode La Fosse Saint-Marcoult Premier Cru 2016 vinificato da Edgar Coulon, il figlio di Eric e Isabelle. Pinot meunier in purezza da vecchie vigne di Vrigny. Sboccatura aprile 2021 con 1,5 grammi di zucchero. Note trascritte: colore paglierino brillante, naso di nocciola, iodio, attimi di escursione ossidativa, mandorla sbucciata, carbonica crepitante e carezzevole che tende a farsi epidermide, note succose, nocciola tostata, brezza marina, il sale che s’irradia.

Tornando alla kermesse enoica di Cucina Madre, mi sono piaciuti i vini di Chateau Le Payral di Thierry e Isabelle Daulhiac a Razac-de Saussignac Il Lou Payral Blanc 2017 è un taglio di sauvignon gris (70%) e sauvignon blanc (30%) dai vigneti più vecchi dell’azienda (furono piantati dal nonno) che sfoggia un’ampia e accattivante palette di agrumi e fiori, mentre il Lou Payral Merlot 2019 da terreni silicei e vigne altrettanto vecchie (appartenevano alla nonna) dimostra una personalità non comune, che restituisce la gagliardia dei vini del Sud-Ovest francese: al naso s’inseguono sottobosco, tartufo, champignon, china, liquirizia; il palato, succoso, è un incalzare di terra, mora, grafite, garrigue, ciliegia selvatica, brace senza soluzione di continuità con un allungo persistente, un sapore di terra e un carattere  di ferro. Squisito il Saussignac 2004 da uve botritizzate di semillon (60%), muscadelle (25%) e sauvignon blanc (15%)

Di rilievo i bianchi del Domaine de La Croisée di Nolwenn Volant e Matthieu Maudry a Tracy-sur-Loire. Lei lavorava in un gruppo editoriale, lui nella finanza, insieme hanno fondato nel 2019 questa tenuta di 8 ettari e mezzo nel cuore del Pouilly Fumé. Il Magma 2020, fusione di tre diversi suoli (marnoso, calcareo, sabbioso) seduce per finezza e sottigliezza: che limone, che agrume!

Più di una curiosità hanno destato i vini sloveni di Iločki Podrumi, tenuta la cui origine risale addirittura al 1450. Le prime piante di traminac (roter traminer) furono piantate da Livio Odescalchi nel 1710. Oggi l’azienda è guidata da Juraj Mihaljević e vini sono curati dall’enologa Vera Zima. Il Principovac Graševina 2018 (formato magnum) è un vino sorprendente per sapore e persistenza, se si pensa che la graševina è una varietà imparentata con il riesling italico.

Il Vukovo Traminac 2018 esprime sentori allietanti di erbe officinali e menta piperita, e possiede un palato pieno e intenso.

Il Principovac Traminac Ledena Berba 2012 è un Ice Wine dal colore mogano e dai profumi di mallo di noce, permeato dalla dolcezza avvolgente e balsamica del miele di castagno.

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Crediti fotografici dell’autore, salvo ove indicato

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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