Château d’Yquem: un assaggio di leggenda

0
2829

La sua storia secolare risale al 1593, quando a Jacques de Sauvage venne assegnato il feudo con il castello, inaugurando un corso dinastico che è durato per quasi due secoli. Nel 1785 il matrimonio tra Françoise Joséphine de Sauvage, l’ultima discendente della famiglia, e il conte Louis Amédée de Lur Saluces, il cui casato era, come suggerisce il cognome nobiliare, originario di Saluzzo, ne inaugura un altro che durerà fino al 1999, quando la proprietà passa nelle mani di Bernard Arnault, fondatore, presidente e ceo del gruppo LMVH, dentro cui gravitano maison d’eccellenza come Moët & Chandon, Krug, Ruinart, Veuve Clicquot, Château Cheval Blanc, Clos des Lambrays.

Al castello si producevano vini rinomati già nel XVIII secolo ma la data spartiacque indicata dalla tradizione è il 1847: il rientro tardivo di Bertrand Lur Saluces dalla Russia costrinse i vendemmiatori a raccogliere le uve, colpite nel frattempo da una muffa chiamata Botrytis cinerea, più in là nel tempo, facendo nascere un vino più dolce e aromatico.

Stiamo parlando, ça va sans dire, di Château d’Yquem, il Sauternes più celebre e prestigioso del mondo, avvolto da tempo nella leggenda come le vigne che lo circondano dalla nebbia mattutina, decisiva per la formazione della botrite. Dalla storica classificazione bordolese del 1855 è l’unico Premier Cru Supérieur del Sauternais. Nessuno come lui per fama, successo, prezzo.

Dalla fine del 2020 è direttore tecnico di Château d’Yquem un italiano, Lorenzo Pasquini, trentatreenne romano, laurea in enologia a Pisa e master a Bordeaux, esperienze maturate presso Château Palmer, Cheval des Andes, Château Giscours, Château du Tertre e Caiarossa prima di approdare a Sauternes, dove si cimenta con la sua prima vendemmia nel 2021, esattamente un secolo dopo quella leggendaria del 1921: quasi un segno del destino.

In una luminosa giornata di fine gennaio Lorenzo Pasquini – savoir-faire impeccabile che unisce preparazione, garbo, passione – è a Milano a condurre una masterclass nell’annuale appuntamento con la kermesse di Cuzziol Grandi Vini: Château d’Yquem è una delle novità del suo portfolio.

È l’occasione per presentare il millesimo 2020, l’ultimo commercializzato, frutto di un’annata calda e piovosa in primavera, che ha causato un anticipo di vegetazione di circa 15 giorni ma ha anche fornito buone scorte idriche per affrontare un’estate quasi bollente. La vendemmia è durata dal 14 settembre al 29 ottobre, con l’intermezzo di un forte temporale verso la fine di settembre. Cinque i passaggi in vigna (trie) per la selezione dei grappoli e delle uve. «La botrite si diffonde in modo discontinuo ed è per questo che sono necessari più passaggi. Qui la vendemmia può durare anche un mese. Nel 1997 addirittura due: dal 4 settembre al 4 novembre! Dopo essere stato selezionato, il grappolo viene aperto e annusato per sentire che non sia troppo acetico per la presenza di altre muffe, meno nobili. Qui si dice che un buon vendemmiatore deve avere il naso sporco di marrone. L’età media di quelli che lavorano da Yquem è 63 anni, ci sono molti pensionati che ancora prestano la loro manodopera. È una tradizione che si è tramandata nel corso dei secoli: sono ben 13 le generazioni di vendemmiatori che si sono succedute dal 1593».

Una delle chiavi della singolarità e della grandezza d’Yquem è la complessità pedologica dei terreni intorno al castello. «Siamo su colline molto dolci che dai 30 arrivano ai 70 metri sul livello del mare con 13 tipologie di suolo che possono essere suddivise in 4 principali categorie: quelli ciottolosi delle grave, quelli argillosi, quelli argillo-calcarei e, più a sud della tenuta, quelli alluvionali costituti da materiali più leggeri. La botrite vuole l’umidità per formarsi e un clima secco per “morire” dopo aver colonizzato le bacche. L’argilla conserva l’acqua, che diventa una riserva di umidità naturale, soffiata poi via dalle brezze. L’alternanza di umido e secco è cruciale per la formazione della muffa nobile».

Formato da uve botritizzate di sémillon (75%) e sauvignon (25%, non c’è il muscadelle) raccolte in ceste di legno, vinificato con lunghe pressature (il liquido è di color marrone), fermentato spontaneamente con pied de cuve e maturato in barrique per 18 mesi (fino al 2011 erano 30) sull’80% della massa, il 2020 rappresenta al meglio il cambio di stile delle ultime annate: invitante da subito e capace di invecchiare a lungo. «Oggi non pensiamo che il grande vino vada necessariamente aspettato. La 2020 è stata un’annata particolarmente aromatica: oggi è giocata sulla frutta fresca e nel giro di 4/5 anni lascerà spazio alla scorza d’arancia e allo zafferano, i descrittori più tipici e riconoscibili d’Yquem». Ha colore dorato brillante, un naso screziato e invitante di albicocca, frutta esotica, pesca, litchi, pera, mela cotogna, miele d’acacia. Il palato è denso, avvolgente, esotico-fruttato (mango) con un finale modulato, soffuso, squisitamente apollineo.

Il 2005 ha colore dorato intenso e luminoso. Il naso offre sensazioni di botrite, freschezza candita, tabacco biondo, cioccolato bianco. Il sorso ha intensità e finezza, equilibrio e modulazione, con l’arancia amara e candita che conferisce contrasto. Una versione di mirabile souplesse.

Il 1997, tra le annate più preziose e celebrate del suo decennio (la vendemmia si è protratta dai primi di settembre ai primi di novembre con temperature sotto lo zero), presenta un colore dorato intenso, quasi lingotto, dalle sfumature aranciate. C’è un’idea di purezza che aleggia nell’aria – zafferano, miele, frutta candita – e al palato, dove spicca, al di là delle analogie sensoriali, un senso di fusione, di profondità, di persistenza assoluta.

Non avevo mai assaggiato l’Y, il bianco della casa che nel tempo ha modificato sensibilmente il suo profilo. Nato nel 1959, è stato concepito fino al 2004 come un “Sauternes” secco (non può fregiarsi dell’appellation) prodotto con le ultime uve della stagione. Nelle annate successive, al contrario, la raccolta si è via via localizzata all’inizio della vendemmia: due terzi di sauvignon maturo e un terzo di sémillon attaccato dalla prima botrite generano un bianco secco dalle nuance di muffa nobile. Il risultato è un Bordeaux bianco molto sui generis, profumato, accattivante, a tratti irresistibile e, parlando di Château d’Yquem, non economico (una bottiglia costa intorno ai 150 euro). Il 2017 ha colore paglierino leggerissimo e un olfatto sopraffino ed espressivo di erbe aromatiche e selvatiche, di esplosione floreale, di agrumi; il sorso è succoso e contrastato, pieno e longilineo, con alternanze di pesca e litchi, biancospino e pompelmo, e un finale fresco, dinamico, sottile, invitante.

___§___

Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

Previous article2019, un’annata in bellezza. Selezione di Chianti Classico e Chianti Classico Riserva
Next article12/2 a Firenze: Anteprima Chianti lovers&Rosso Morellino
Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here