Trasparenze e nudità realizzano un rosso granata “leggero e ossuto”, senza lasciarti però il minimo dubbio sulla vitalità che vi cova, perché quasi quasi pensi che quel vino sia venuto al mondo così, tenue ed evoluto, senza un’ombra di forzatura; al naso avrai di ritorno austerità e sfumature, e un lungo sussurro aromatico di sprezzante audacia minerale, nobilmente speziato, in cui l’intreccio dei profumi, respirando, si farà cangiante e conquistatore: sono fiori secchi e goudron, erbe officinali e cardamomo, frutta secca e chiodo di garofano, lampone e clorofilla a regalarci un affresco d’altura, limpido nel tratteggio, modulato e flemmatico nella scansione, in cui un rigore “antico” ne innerva gli stimoli per riproporcelo oggi vitale e altero, accorto e sicuro di sé. Ci racconta così di uno spirito nebbiolesco tenace e montanaro, quasi fosse un monito.
La bocca è come un soffio: felpata, aerea, delicata. Non un’idea di peso o volume nei dintorni, solo una carezza garbata di un vino lontano mille miglia dagli abusati cliché, casomai pervaso da una naturalezza espressiva tenera e disarmante, che sa coinvolgerti per la finissima trama, lo sviluppo teso e senza orpelli, la chiusura amorevole sul registro sapido-minerale ed il piglio autoriale che attiene ai vini individui, quei vini a cui qualcuno, chissacchì, ha affidato il compito arduo di comunicare, lungo tutto un sorso, le ragioni della propria terra. L’impressione che a volte ci riescano supera qui, di gran lunga, la più fulgida delle aspettative.
A 20 euro o giù di lì un vino diverso, spiazzante, artisan, al cui tratto essenziale senti appartenere il gesto autentico e la ricchezza.
La chiosa:
Difficile rimanere insensibili di fronte a un bicchiere così. Perché ti urla in silenzio la sua diversità. Perché -come tutti i gioielli rari- sembra raccogliere dalla temeraria realtà di una viticoltura eroica e dal carattere estremo di un microclima per nulla accomodante, tutte le forze che servono per riuscire unico. Sono quei vini che non apparenti, sono quei vini che non confondi, gli integerrimi e i leali, i “tuttidunpezzo” e i “senza filtri”, che nel nome della tradizione, la più pura, segnano uno spartiacque, uno strappo temporale, una scommessa nel mondo vitivinicolo attuale. Sono quei vini nei quali la grammatica enologica forse non sempre è Vangelo, e non sempre viene tradotta con i crismi della perfezione e della correttezza, ma sono anche quelli, guarda un po’, che di tutta questa perfezione sembra possano fare a meno. Perché in fondo sono vini “resistenti”, vini partigiani, quelli che nella battaglia, pur sporcandosi, acquisiscono l’aura dell’eroe romantico. Alla fine, qualunque sia l’esito della battaglia, non resta che la bellezza.
Non conosco -non come dovrei- la famiglia Pelizzatto Perego, ma da molti anni i loro vini sono presenti nella mia cantina. Non so spiegarne bene il motivo, o forse sì. Fatto sta che li ho sempre considerati come una cosa cara. Nel frattempo i miei sentimenti si dichiarano colpevolmente feriti per la lunga assenza dalle terre di Valtellina. Questo vino d’altronde non fa che acuire i sensi di colpa. Di contro, la sua compagnia mi rende più sopportabile lo struggimento, quasi a suggerire che c’è ancora tempo per ogni dimenticanza non colmata o per ogni viaggio mai intrapreso. La sensazione ingenua che con questo bicchiere sia come stare nel “terziere di mezzo” mi conforta e mi illude.
La foto delle vigne di Sassella è stata estratta dal sito aziendale.
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