Vitigni antichi e moderni. Quale successo per gli incroci?

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Lo scorso 7 febbraio, all’Hotel Sheraton di Roma, un buon successo di pubblico, formato da operatori, vignaioli e appassionati, ha accolto la 1ª Giornata di Studio sul Vino: “Innovazione – Il vino che berremo.” L’incontro, ideato da Andrea Zanfi e organizzato da Fuori Casa di Caterina Andorno, era articolato in due forum tematici e una degustazione aperta al pubblico.

Se la degustazione presentava un interessante taglio dovuto alla selezione, a cura di un comitato scientifico, di oltre settanta aziende portatrici in qualche modo di idee innovative del mondo enoico italiano, anche i due forum hanno riscosso successo, anche grazie a una formula agevole basata su rapidi interventi e spazio per la discussione.

“Marketing come strumento di supporto alle aziende vitivinicole per affrontare la sfida alla globalizzazione” l’argomento del forum mattutino, che ha visto succedersi, con la coordinazione di Fabio Piccoli, gli interventi di Luigi Odello, Andrea Gabbrielli, Gianni Usai, Mario Falcetti, me medesimo, Romolo di Stefano e Roger Sesto. Una compagine decisamente troppo maschile (lancio un suggerimento di maggior apertura al mondo femminile, che sicuramente sarà accolto da Andrea Zanfi per la prossima edizione), ma portatrice di spunti interessanti.

Dopo pranzo è stata invece la volta del ruolo de “I vitigni come elementi per un distinguo strategico delle aziende”, con i contributi di Attilio Scienza, Roberto Zironi, Oriana Silvestroni, Rocco Lettieri, Paolo Vagaggini e Vittorio Fiore.

Senza nulla togliere agli altri relatori, voglio soffermarmi proprio sull’unico intervento femminile della giornata, che ho trovato istruttivo e foriero di elaborazione. Oriana Silvestroni, professoressa all’Università delle Marche, ha gettato uno sguardo storico analitico su quello che lei stessa ha definito l'”ingessamento genotipico” creatosi con la creazione del Catalogo nazionale delle varietà di vite dell’inizio degli anni ’70. Un’opera di catalogazione che, prescindendo da un giudizio di valore sulla stessa, getta comunque buona luce sull’importanza dei vitigni cosidetti storici e sul risultato del lavoro recente dell’uomo volto al miglioramento delle varietà viticole tramite incrocio.

La prima edizione del Catalogo, fotografando la situazione dell’epoca in Italia (senza differenziare tra vitigni autoctoni o alloctoni, cosa sempre difficile a causa della stratificazione storica) contò 269 vitigni,di cui solo 5 erano risultato di incroci conosciuti (oggi si sa molto di più grazie alle tecniche di lettura del DNA, ma all’epoca non c’erano notizie storiche su tanti vitigni ora riconosciuti come incroci). Nella seconda revisione del 1978 furono 78 i vitigni aggiunti, e di questi ben 21 ottenuti da incrocio (in gran parte nel periodo 1930-1950), tra cui l’Incrocio Manzoni 6-0-13, oggi più conosciuto come Manzoni bianco. Dieci anni dopo altre 18 nuove iscrizioni e tra queste un solo incrocio, il Kerner. Uno stop all’introduzione di nuove varietà da incrocio che Silvestroni spiega colla nascente preoccupazione dell’erosione genetica del patrimonio vegetale, e con le conseguenti attività di conservazione del germoplasma viticolo. Attività presenti praticamente in tutte le regioni, coordinate da un apposito progetto del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e che portano come risultato alla redazione dell’Elenco delle cultivar autoctone italiane, pubblicato a inizio anni 90. Un compendio che non considera solo la vite ma tutte le specie da frutto.

Tornando al Catalogo viticolo, si annotano 34 nuovi inserimenti nel biennio 1998-2000, dei quali 5 da incrocio e 26 dal 2000 al 2006, con 4 varietà da incrocio. Se la volontà che sembra star dietro alla creazione del Catalogo predilige ovviamente le varietà antiche (non incrociate in epoca recente), bisogna però andare anche a vedere quale sia stato il successo degli incroci introdotti e non si può che rilevare una crescita stentata per questi vitigni, con un certo successo per il Manzoni bianco, il Kerner e, in maniera assai minore, per Rebo e pochi altri.

Insomma, mentre negli ultimi decenni il patrimonio viticolo italiano veniva abbastanza velocemente colonizzato da vitigni notoriamente alloctoni ma comunque di antica origine, i tentativi di miglioramente genetico di quasi un secolo di incroci, hanno ricevuto una attenzione e un successo solo marginale. Una conclusione che sembra esser sfuggita alla stessa relatrice che, in linea con un intervento precedente di Attilio Scienza, ha ribadito la necessità di sperimentare nuovi incroci, non fosse altro per i cambiamenti climatici ormai dati da tutti per certi, anche se tutti continuano a litigare sulla causa antropica degli stessi.

Linea positivista certamente apprezzabile, visto che nessuno nega la rilevanza della ricerca, ma che seguiva l’invito, che era apparso un poco provocatorio, di Scienza a svincolare la ricerca dalle pastoie burocratiche. Se infatti la Silvestroni affermava i possibili, e non così semplicemente raggiungibili a ben vedere, vantaggi della creazione di nuove varietà, l’argomentazione di Scienza era la seguente: come è possibile che la coltivazione della vite sia ristretta alle varietà catalogate quando per tutte le altre specie da frutto c’è una completa libertà di innovazione che ha portato ad avere i prodotti della terra più buoni mai esistiti?

Una provocazione facilmente contrastabile, visto che era stato appena affermato, e condiviso nel forum, che mai come ora sono stati prodotti vini così buoni, mentre, per contro, è più che evidente il peggioramento generalizzato (forse con poche eccezioni, quali alcune varietà di mele, come affermato da Scienza) delle caratteristiche organolettiche di frutti e ortaggi (si pensi ai pomodori, alle patate, ecc.). Un peggioramento non certo dovuto alla stupidità di chi crea gli incroci, ma piuttosto al fine di tali incroci, volti a migliorare la commerciabilità dei prodotti, specialmente a livello di produzione industriale e grande distribuzione. Ecco così che non siamo andati alla ricerca del pomodoro più gustoso, ma piuttosto di quello immarcescibile, o della pesca da cogliere verde e veder maturare nelle cassette. Una strada a ben vedere non diversa da quella della manipolazione genetica la quale, a prescindere dalla possibile pericolosità o meno, non è stata indirizzata al miglioramento del prodotto, ma piuttosto alla semplificazione del suo sfruttamento industriale, magari rendendolo inattaccabile ai diserbanti prodotti dalla stessa azienda fautrice della manipolazione.

I migliori vini con i vitigni più antichi e i peggiori frutti dagli incrocio più moderni, e quindi provocazione rimandata al mittente, professor Scienza, senza negare il valore della ricerca (e neppure credo che al livello di ricerca in campo sperimentale ci sia limitazione alcuna agli incroci delle viti, come dimostra una recente comunicazione dell’Unione Italiana Vini), ma tenendo la barra ben dritta sul mantenimento della qualità e non sull’asservimento alle leggi di mercato.

Nelle foto Oriana Silvestroni e Attilio Scienza

Luca Bonci

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