Recensione/”Gastromania”, di Gianfranco Marrone: un libro effetto di cattiva digestione?

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gastromaniaL’argomento cibo dilaga, invade gli schermi (grandi e piccoli) e gli scaffali delle librerie. Riempie conversazioni, porzioni di vita e di socialità. Ed è un argomento che probabilmente merita l’attenzione e l’interesse che suscita, se non altro per i suoi risvolti politici ed economici. Per dire, c’è chi pensa che non è da escludersi per il futuro la possibilità di guerre per il cibo e/o per l’acqua. Dunque, è comprensibile e positivo che studiosi di varie estrazioni si cimentino sul tema con competenza e saggezza. Con questo libro, le premesse sono ottime: siamo di fronte ad un “saggista e scrittore, [che] insegna semiotica all’Università di Palermo e [che] collabora con diversi giornali. Si occupa di linguaggi, discorsi e media nella cultura contemporanea, analizzando fenomeni diversi come il giornalismo e la fiction televisiva, lo spazio della città e le tecnologie comunicative, la gastronomia e la corporeità…”. Il punto, però, è che sembra abbia affrontato il compito con un certo malumore, malumore poi andato via via crescendo nel corso della scrittura.

Il proposito di partenza dell’autore è nobile e positivo: dimostrare che questo continuo parlare riflettere scrivere trasmettere immagini sul cibo “non sia soltanto una moda che, come tutte le mode, sarà presto fuori moda”. Certo, però, il contesto non è dei più favorevoli. La sua vita appare da subito un piccolo inferno: ogni giorno riceve decine (capperi!) di mail, sms, tweet “e simili”, di inviti a degustazioni, cene, showcooking (tutto attaccato), “verticali di Sassicaia e orizzontali di Gaia”, e si spera che siano di vini di Gaja, anche perché la figlia di Angelo Gaja si chiama proprio Gaia, e non vorremmo si andasse sul “piccante”. E poi libri, racconti, ricettari, decine di app sullo smartphone (e qui però bisogna essere dei maniaci dell’App Store o del Play Store). Mercati contadini, gruppi di acquisto (ma proprio di vini cileni e neozelandesi??), eccetera eccetera. Un assedio vero e proprio.

Il malumore continua, e a pag. 17 compare per la prima volta un concetto che, pur convincente, è però anche oramai non proprio originalissimo, e sarà comunque ripetuto a mo’ di mantra: gli scaffali son pieni di libri sul cibo e sulla cucina, proprio quando sempre meno si sa, o si vuole stare ai fornelli. E, per di più, le librerie sono invase da “decine e decine di libri inutili – nel senso che producono, forse, utili economici ma senza idee sensate di sperabile supporto”, il che non sembra esattamente carino nei confronti dei colleghi autori, per non parlare che un giudizio così tranchant potrebbe produrre anche un effetto-boomerang.

Ma entriamo nel vivo, nell’analisi dei linguaggi. I “testi” affrontati sono molteplici, dalle pellicole “Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa” e “Comme un chef”, alla meticolosissima analisi della scena finale di “Ratatouille”, quando i sapori realizzano una classica catarsi e proiettano Anton Ego nella sua infanzia ma investendola di una gioia che essa al tempo non aveva , a “7 chili in 7 giorni” con Renato Pozzetto e Carlo Verdone; ai paradossi della vecchia pubblicità dell’olio Sasso (perché essere contenti di svegliarsi quando nel sogno si aveva sì la pancia, ma si era felici in un luogo fantastico e invece ci si ritrova magri ma in un tinello piccolo borghese?) a MasterChef naturalmente, perché “ci toccherà parlarne”. Alla serie sul commissario Montalbano, dove ad un certo punto parte una lunga divagazione sulle polemiche e le gelosie sorte fra località siciliane per la sua ambientazione. Dopodiché, con una successione il cui senso sfugge, si passa al paragrafo “Multinaturalismo al mercato”: “Andando alla questione del cibo biologico…”. Ma sì, andiamo.

Si affastellano concetti disseminati di termini inglesi, talvolta con ripetizioni delle parole usate, come in un testo riletto poco (e sfuggono imprecisioni come VeuveClicquot tutto attaccato, vineyards forse con una “s” di troppo); argomenti rapsodici e di cui sfuggono le concatenazioni, anche contraddittori (prima si dice, un tantino sorprendentemente, che “si sa, la percezione del cibo è e deve essere costitutivamente distratta”, e poche righe dopo che il mangiare con altri è “un rito sociale che è al tempo stesso un piacere del corpo”), strampalati e/o di dubbio umorismo (“Sono andato ad un convegno sul turismo enologico. Non una trovata da ubriaconi in incognito ma roba seria”).

Ma il culmine del malumore arriva al momento di parlare di street food, anzi della “variegata roba da strada” consumata nel “chioschetto che propone cibo alternativo a quello casalingo” (?), e “tradizionalmente maschile” (?), “robaccia untuosa dalle origini dubbie e dagli esiti digestivi, invece, certissimi”. Apriti cielo! Ecco liquidata una delle espressioni più divertenti ed interessanti della gastronomia mondiale, con l’inclinazione d’animo triste e sospettosa di quelli che guardano i menu dei ristoranti di sbieco pensando “questo sarà pesante, questo non lo digerirò, chissà cosa avranno messo qui dentro”. E quindi “non c’è niente di più irritante che un eroismo inutile, diceva il saggio; ma forse lo abbiamo trovato: è l’avventura gastronomica del cibo da strada che irrita alla lettera oltre che metaforicamente” consumata in “chioschetti odorosi e fumanti che proponevano (e propongono) budella e stomaci di risulta, quinti, quarti [ma non sarà mica il quinto-quarto, meglio declinato al singolare e senza virgola?, ndr] e lamprede.” E che “in quanto povero e frettoloso, da consumare in piedi e per strada, si contrappone alla convivialità sociale […]. Finendo dunque per assomigliare a quel fast food con cui pure confliggeva”: cioè assomiglia al McDonald’s con i suoi variopinti e conviviali tavolini?

Insomma, la prossima volta che ci fermeremo davanti ad un trippaio fiorentino mangiando un buon panino al lampredotto, in allegra compagnia anche se senza una sedia sotto il sedere e senza il tovagliato di fiandra, ci sentiremo addosso un grande senso di colpa perché “mangiar bene vuol dire anche far le cose come si deve, saperle eseguire, con eleganza” e ripenseremo, se maschietti, alle severe parole: “basta con questi rigurgiti di machismo mascherati da chissà quale mitologia del territorio o riguardo al portafogli.”

Alla fine, è lo scoramento che prevale: la gastromania, che dà il titolo al libro, “è chiacchiericcio continuo ma senza mete, senza destini, senza progetti assolutamente definitivi”.

Una conclusione che porta ad un dubbio: che sia questo un libro scritto sotto gli effetti di cattive digestioni.

Gianfranco Marrone
Gastromania
Bompiani – PasSaggi (settembre 2014)
203 pagg. – 14 euro; ebook 8,49 euro

Riccardo Farchioni

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