Memorie d’Inghilterra/2. La sfida (innovativa?) di New Hall Vineyards

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FOTO OK COMPUTER 1472 (Small)E l’innovazione, allora? L’innovazione dove la metti? Già. Cosa potrebbe essere innovazione? Una tradizione “venuta male”? O meglio, un gesto apparentemente sbagliato all’interno di un meccanismo rodato e funzionante, ma che crea una prospettiva nuova? Oppure un’azione ostinata e caparbia, metodica, che non si arrende fino ad ottenere il risultato desiderato? Forse sì, forse no o forse tutte queste cose assieme. Di sicuro, in terra di Britannia, la vite è stata portata già nel 55 A.C., e si trattò di una innovazione, che tale è rimasta fino ad oggi, peraltro! E un altro fatto certo è che la New Hall Vineyard, azienda pensata e voluta dalla famiglia Greenwood, dal 1969 si occupa di innovare la vitivinicoltura a latitudini forse erroneamente derubricate in fretta da noi “sud europei”.

Sono alloggiato al The Ship Inn, sperduto in una campagna dolce e malinconica, a poche miglia dalla costa. La voce metallica, ma femminile, che mi accompagna in auto suggerendomi strade e stradine, mi ha indirizzato presso questa vecchia casa lontana almeno un paio di miglia da anima viva. Luogo appartato se ce n’è uno insomma, ma che, chissà come mai,  già alle quattro e mezza di pomeriggio inizia ad animarsi. Gente ancora in tenuta da lavoro che conversa, ride e socializza con i nuovi arrivati. No, non è un cottage di lusso o una dimora d’epoca, ma un pub con camere, un pub che ha aperto i battenti a metà del XVI secolo per solitari avventori in cerca di ristoro e di un po’ di calore. Non c’è niente allo Ship Inn, ma non manca neppure niente; il bancone di vecchio noce emana odore di birra scura, i pavimenti sono storti come lo sono gli stipiti delle porte, spesso troppo basse. E la cosa si fa difficile dopo la terza pinta. Sembra davvero la casa di Harry Potter. Mi sveglio di buon’ora per preparare lo stomaco alla colazione. Niente da fare, non riesco ad essere pronto per tutto quello che qua cucinano alla mattina. Oggi è sabato ma la settimana è stata molto impegnativa, quindi, dopo il secondo appuntamento, decido di togliermi giacca, cravatta e scarpe di cuoio e, visto che ho sempre le valige in macchina come i veri mercanti, mi metto comodo.

La visita a New Hall Vineyard -che si trova a Purleigh, nella contea dell’Essex- in verità sarebbe stata in programma per il giorno dopo, ma telefonando in cantina mi dicono che non c’è problema e che già dal primo pomeriggio sarebbero disponibili ad incontrarmi. Apro i finestrini dell’auto e mi faccio schiaffeggiare dall’aria fresca e dai raggi del sole che, generosamente, mi dimostrano il loro affetto. Inizia un saliscendi fra le dolci colline d’Inghilterra: muri antichi, un verde profondo e volti indaffarati mi fanno da cornice lungo tutto il tragitto. Nessuna scritta all’inizio della via e solo la mia fidata compagna “ GPS “ si accorge di dover svoltare in una strada sterrata a cui due salici fanno da guardiani. Proseguo e mi inoltro nella campagna fiducioso, fra fango e rivoli d’acqua. Nel tentativo di trovare un ingresso scorgo una figura sorridente che mi invita verso di sé. Andy Hares è sulla porta, stupito che un italiano sia arrivato fin lì a visitare la cantina. “Con tutto il vino che avete in Italia che ci fai da queste parti?“, e sorride con fare gentile e curioso.

E’ l’enologo dell’azienda dal 2015, laurea di prima classe con menzione d’onore presso la facoltà di enologia al Plumton College, Sussex, e poi tirocinio a Bordeaux, terminato il quale decide di trasferirsi là, assieme alla futura moglie Lucy, ora General manager della New Hall Vineyard. Andy lavora in Francia sei anni per poi tornare in patria ad occuparsi di consulenze fino alla fine del 2014, quando accetta la proposta di Sir Greenwood. Anche se New Hall Vineyard è una della più storiche e celebri cantine d’Inghilterra, grazie soprattutto alle bollicine metodo champenoise, mantiene un low profile e un aspetto agreste, di ordinata noncuranza. Poca meccanizzazione, tanto lavoro in vigna, suoli argillosi di medio impasto. E una produzione di 120.000 bottiglie annue (più 15.000 per conto terzi) che ne fanno una realtà medio-piccola nel panorama vitivinicolo inglese. Forse per predisposizione o forse perché ha vissuto tanto in Europa, Andy è molto cordiale e disponibile, più simile ad un fattore toscano che ad un manager British.

Passeggiamo fra le vigne, godendoci il paesaggio. “ Il nostro principale problema -mi spiega- è la troppa pioggia. E’ molto difficile ottenere gradazioni alcoliche sopra gli 11% vol. Abbiamo scelto il Guyot come forma di allevamento e cerchiamo di far soffrire la pianta il più possibile ma, anche se  le piogge sono frequenti, non ci permettono di elevare le gradazioni. Ovviamente non facciamo lavori strani in cantina per aumentare il grado alcolico e cerchiamo così di dare una identità al vino tramite il terroir. Il risultato è buono, siamo una cantina di riferimento, vendiamo bene e, a parte un po’ di storico, in azienda non rimane niente”. Interessanti e non scontati i vitigni che vengono utilizzati, principalmente di origine germanica, che vanno dal classico Müller Thurgau al Baccus, dall’Huxelrebe all’Ortega. Siamo di fronte alle bottiglie: mi stappa quelle a suo parere più caratterizzanti.

Signature 2014 (da uve müller thurgau, huxelrebe e ortega, un incrocio di müller thurgau e siegerrebe).

Tenue e delicatissimo giallo con flebili riflessi verdolini, una tonalità che non ammette sfumature ma che ti fa venir voglia di coccolarlo. Profumi anch’essi sussurrati: fiori e frutti bianchi e gialli, erba appena tagliata, banana e pesca. In bocca è fresco, secco con sentori di agrumi, vaniglia e frutti disidratati come dattero e fico, il finale non è lungo ma siamo pur sempre in Inghilterra.

Baccus 2014 (questo vitigno è il risultato di un incrocio fra sylvaner, riesling e müller thurgau).

Stesse tonalità del precedente, alla vista. Al naso però, oltre a note sottili di agrumi e ginestra, hai anche fragola e caco. In bocca è secco, con note di miele, frutta bianca e tabacco biondo.

Baron Red 2014 (pinot noir)

Al naso lo senti che è Pinot Noir. Allora cerchi di dimenticare la sua origine per approcciarlo come se non lo conoscessi. Il colore è scarico, ai profumi emergono sentori di erba essiccata al sole, leggero goudron e sottobosco. Il balsamico è appena accennato. In bocca è fresco, bilanciato, non potente, e richiama alla mente sensazioni di rosa, pere, carrube, frutti scuri e pepe.

Baron Red 2014 Riserva (pinot noir)

Dichiara 11,5 di alcol. E mi stupisce. Mentre il colore è ancora da stabilizzarsi il resto dimostra una precisa identità. Più tensione al naso del precedente, con profumi balsamici, di viola e frutti neri in confettura. Bocca che esordisce con una tisana concentrata di fiori rossi secchi, assai elegante. Poi frutti neri, dal ribes alle more non ancora mature, e fragoline di bosco. Tannino rugoso, però sopportabile.

Assieme ad Andy discutiamo della delicatezza nell’approccio alla beva di questi vini, ma la cosa che più rimane impressa è il grado di sensibilità e di attenzione che occorre per “ascoltarli”. Questi vini infatti sussurrano, bisbigliano, tutte le sfumature sono terse ma come in sottotraccia. Sono come piccoli tasselli di un tappeto sensoriale. Una stretta di mano decisa e una pacca sulla spalla, infarcite di ringraziamenti e di raccomandazioni, è quello che Andy mi regala. Io di rimando ringrazio di cuore. L’aria si è fatta nel frattempo più pungente e umida di prima, il tramonto fa strizzare gli occhi, odori di legna e di camino suggeriscono che è ora di tornare. Riprendo la strada osservando le ombre degli alberi allungarsi e le lande silenziose della contea che si apprestano ad un nuovo sonno.

 galleria di immagini

Marco Bonanni

Sono cresciuto con i Clash, Bach e Coltrane, quello che so del vino lo devo a loro.

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