La personale idiosincrasia per i riti celebrativi “a comando”, tipo il Natale e dintorni, è andata crescendo negli anni. Non ne conosco a fondo i motivi, o forse sì, ma è pur vero che, con implacabile puntualità, i delicati meccanismi psichici che governano l’agire e l’attitudine alla socialità nei rapporti interpersonali si ingrippano un po’. All’appropinquarsi del Natale poi, con il rilascio della tensione muscolare quasi fossi un pedalatore che “scolletta” dopo una lunga salita, sopravviene la tentazione forte di crogiolarsi in una sorta di apnea meditabonda, dai battiti rallentati, restìa ai sussulti emozionali e refrattaria ad essere investita dalla curiosità verso le cose attorno, che legittimamente gradirebbero una reazione. E’ come se nella testa rimbombasse continuamente I can’t get no satisfaction, per dire. Un lavoraccio girarmi attorno.
Per fortuna questo stato di apatica insofferenza vive solitamente il suo picco proprio in quel periodo e in quello solo, per poi rimarginarsi una volta lasciate alle spalle le consuetudini rituali delle festività. E allora ecco che l’addominale ha un rigurgito di memoria, e si ricorda che un tempo era pure stato un muscolo, ecco che il corpo inizia a rispondere meglio agli stimoli neurologici che gli urlano: “muoviti!”, ecco che il cuore “si rincuora”, vincendo la resistenza di certe perduranti bradicardie per pompare nuovamente sangue e pulsazioni emotive. Si riemerge all’aria, dopo tanta apnea!
In stretta ed ingenerosa sintesi questa è la piega solita che prendono i pensieri con l’addentrarsi del mese di dicembre. A meno che non succeda qualcosa di straordinario, che mi scuota per davvero. Ebbene, strano a dirsi ma stavolta è accaduto: grazie alla compagnia di vini tanto inattesi quanto complici, le consuete aritmie esistenziali hanno avuto decisamente la peggio sul buonumore.
Non si tratta di etichette “a caso” e non so dirvi se la loro nomea vada incasellata più nel segno dell’elettiva esclusività che in quello dell’ovvietà. Ammesso e non concesso che la strabiliante qualità di un sorso possa definirsi “ovvia”, dal momento in cui te l’aspettavi. Ma credo anche che questo arzigogolo mentale conti poco, oggi. Quello che conta è il risultato terapeutico. E il risultato terapeutico ci parla di una consolazione quieta e appagante, confortevole e amica, oltreché totalmente insperata. Una consolazione bella da accondiscendere, che mi consente di osservare lo scorcio d’anno che sta per finire con uno sguardo ancora a colori, senza scale di grigio.
Per dirla tutt’intera e nel pieno rispetto della forma: Clos de la Roche Grand Cru 1999 Domaine Armand Rousseau et Fils da una parte, Saint Estèphe Grand Cru Classé Château Montrose 2000 dall’altra. L’eloquenza borgognotta contro l’eloquenza bordolese. Miti a confronto.
Ebbene, ci è voluto poco per capire che questa straordinaria terapia liquida (double dose) non poteva arrestarsi né limitarsi a delle semplici notucole di degustazione, sia pure ispirate e sincere. Lo scribacchino, per una volta, deve arrendersi all’evidenza che le parole scritte e pensate in un certo modo potrebbero costituire fastidio puro. Ne dovrà fare a meno quindi, di fronte alla visione che lo investe.
L’assaggio duplice e contemporaneo, non esente da compulsività, ha evidenziato qualche tratto in comune pur nella diversità della sostanza. Non risiede soltanto nella trasparenza espressiva e nell’assenza di forzature, che sono già un bel vedere, ma sta soprattutto nel PORTAMENTO, che ci racconta la loro maniera di “muoversi”, di articolarsi e di porsi. Ecco, arrivati a questo punto, qualora fosse vostra intenzione specificare ulteriormente la “qualità” del portamento assunto, avreste solo l’imbarazzo della scelta. La parola sublime,comunque, potrebbe costituire un buon compromesso.
Poi però c’è un’altra dote che si portano appresso ‘sti due, una dote che non la puoi comprare e che non è di tutti: il virgulto della gioventù. Checchennedicano gli anni già trascorsi in bottiglia, sono vini ancora maledettamente giovani e frementi. Una sensazione di vitale brillantezza che ne ha smussato solo parzialmente la proverbiale indole battagliera, lascito legittimo dei rispettivi terroir edominante caratteriale delle primissime fasi evolutive. Lo ha fatto quel tanto che basta per farci apprezzare le enormi potenzialità sottese, il passo elegante inarrivabile ai più e gli ulteriori pertugi a cui il futuro renderà piena evidenza.
E’ la meglio gioventù:nervosa e reattiva da un lato, comunicativa e piena di cose da dire dall’altro. Assieme a quei vini, nel frattempo, la musica ha cambiato tema e motivo: I don’t wanna grow up, canta adesso. Ovviamente, nella versione ruvida e viscerale di Tom Waits. Indimenticabile, indimenticabili.
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