I vini di cui parleremo non sono per forza il meglio che c’è, ma sono ciò che ho incontrato. Sono stati semplicemente la mia compagnia. Insieme ai volti, agli amici, ai viaggi e agli umori. Di tutta questa parvenza di socialità sono stati il tramite, molto spesso il motore primo. Mi conforta immaginare che possano esserlo anche per chi ne leggerà.
Frizzante Col Fondo Glera 2015 – Mongarda
Perché non sento odore di omologazione qui, non sento l’ordinario. E d’altra parte non sento nemmeno l’approssimazione, l’abbozzo, la rusticità. Sento l’istintività di un bere amico, quella sì. E una soffice tattilità, una “bolla” garbata, la menta e il fiore bianco, l’agilità. E una subitanea dolcezza di frutto, stemperata in fretta – basta attendere il gioco dei lieviti e dell’aria- da una montante incisione sapido-minerale, rilevantissima, che profila la trama per renderla eroicamente affusolata, ad instradarne la persistenza.
Nel mio bicchiere di oggi ritrovo l’incanto di una spontaneità senza sforzo, che è anche singolarità, e quindi distinzione. Mi parla di agricoltura pulita e di metodi ancestrali, di rifermentazioni in bottiglia senza sboccatura. Di una tipologia di vino cioé ad uso dei nonni e delle famiglie contadine della marca, che ad un certo punto della storia nessuno si filava più. Sembrava impossibile trovarne uno sbocco commerciale serio. Oggi, nel riallacciare un dialogo affettivo e proficuo con la curiosità degli appassionati più esigenti, rivendica con orgoglio, a partire dall’etichetta, una prerogativa, che è prerogativa di metodo e di sapore: sono vini col fondo, e questo è. “Se c’è una strada sotto il mare, prima o poi ci troverà”.
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Alto Adige Valle Isarco Sylvaner 2016 – Köfererhof
Un vino attraente per come può esserlo una raffinatezza, questo è, assolto per merito dagli obblighi derivanti dalla banalità e dalla ostentazione. Dove la nitidezza del tratto assume la purezza dell’acqua di roccia, con la trama giocata in sottrazione, la dinamica incalzante, la beva inarrestabile. Fra poco partirò per l’Alto Adige. Casomai ce ne fosse stato bisogno, questo vino ha contribuito da par suo a stracciare la questione e ad indicarmi la meta.
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Montlouis sur Loire Clos de Mosny 2015 – Domaine de la Taille aux Loups
Ora, si dà il caso che Jacky Blot pratichi e abbia praticato un mestiere speciale, quello di courtier, l’inappuntabile mediatore fra le istanze dei produttori e quelle dei negociants, una figura centrale nella filiera commercial-produttiva d’Oltralpe. Nella sua vita, quindi, ha sempre trattato di e con vini blasonati e grandi cru. Perciò ha potuto osservare, girare, parlare, assaggiare. E rendersi conto di privilegi e potenzialità. Così, quando un approdo apparentemente sentimentale a Montlouis sur Loire, con tanto di famiglia a seguito, si è tramutato in qualcosa di agronomicamente concreto, più d’uno, da quelle parti e non solo, ha iniziato a drizzare le orecchie. Sono nati due Domaines, uno a Montlouis (Taille aux Loups, appunto), dedicato allo chenin blanc, l’altro nel territorio di Bourgeuil, storica culla del cabernet franc.
Di Taille aux Loups mi parlò per primo, qualche anno fa, Thierry Dessauve, celebre critico enologico francese, durante una sua visita in Italia, presentatomi da Fabio Rizzari ai tempi guidaioli. Ricordo che ero reduce da una folgorazione, quella per L’Insolite, l’incredibile Chenin Blanc che Thierry Germain ricava nel suo Domaine des Roches Neuves a Saumur-Champigny e che proprio la Guide Bettane-Dessauve, in quella edizione, aveva incensato premiandolo fra i bianchi dell’anno, trascinando così la cantina nel novero di quelle a tre stelle, massima onorificenza, al fianco di nomi stracelebri e cult che vi immaginerete. Bene, chiesi a Thierry se vedeva altre “luci” brillare in quel territorio, e lui fece il nome di Domaine de la Taille aux Loups. Senza indecisioni. Poco dopo Taille aux Loups, per quella guida, approda ai massimi livelli qualitativi. Un evento rarissimo per una cantina tutto sommato di costituzione piuttosto recente.
Ne è valsa la pena. L’espansione fruttata e l’incredibile profilatura gustativa, con quella vivida tensione scandita dalle note di agrume, e quell’acidità bellissima e portante, aprono ad un finale irradiante e puro, che supera di slancio gli “obblighi” legati alla gioventù e ad un rovere in fase digestiva per farti presagire il futuro, un futuro fatto di portamento, di nobile compostezza, di eloquente espressività.
Caotico 2016 – Barbara Avellino
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Bardolino 2014 – Giovanna Tantini
Eppure l’aria spulizzita e razionale che vi si respira non si fa mancare le autenticità. Mi sono fermato spesso, in passato, a Bardolino, a margine dei miei Vinitaly. Ci andavo alla sera: il fascino del borgo ne traeva giovamento, da quel taglio di luce. Il rimbombo dei passi sul selciato del lungo lago pareva avesse l’eco incorporata, e in quei momenti lì ti sembrava di essere solo, felicemente solo, con il paese ai tuoi piedi, assorto, in ascolto. Al Giardino delle Esperidi sono sempre stato bene: per la cucina, stimolata da presìdi e golosità slow, e per la carta dei vini, poco avvezza alle ovvietà. Il locale affollato e ciarliero contrastava con quella eco di passi. La vita, lì dentro, riprendeva un suo fluire accelerato ma spontaneo, fatto di relazioni, di sguardi, di bicchieri. Fatto di parole. Bardolino, forse, non è come sembra.
Bardolino, inteso come vino, è lo storico vessillo liquido del Garda veronese. Eccone un’altra, di autenticità. Pensi ai vitigni (corvina, rondinella e molinara, principalmente) e subito ti viene alla mente la Valpolicella; pensi ai risultati e subito ti viene alla mente Bardolino, non altri. E’ bello come, a parità di vitigni, la movenza femminea, il brillante ricamo dei profumi e la delicatezza di trama conferiscano ai vini di quei luoghi una impronta personale e distintiva, di rosso non rosso, che fa della scioltezza e della versatilità a tavola i suoi punti di forza. La versione classica di Giovanna Tantini mi è sempre piaciuta. Già ne scrissi. Non fa eccezione questo 2014, più essenziale del solito, d’accordo, ma di un dinamismo e di una freschezza che non conoscono limiti. Il frutto puro del ribes e del lampone, la coda speziata, il tratto vinoso dai rilievi gradevolmente amaricanti…. e poi che ritmo, signori. Un piccolo grande Pinot Noir de noantri.
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Barolo Sarmassa 2008 – Brezza Giacomo e Figli
Oreste Brezza, fra i grandi vecchi della vitivinicoltura di Langa, è un appuntamento ineludibile, fosse solo per un saluto. Sai che potrai trovarlo al solito posto, salvo rare eccezioni. E il suo posto si chiama cantina. Lui vive lì, accoglie lì, spesso mangia lì. Grande personalità l’Oreste, dissimulata in un approccio bonario, confidenziale, accomodante, che ti lascia secco per come riesce ad esprimere il sentimento di quei luoghi, con nonchalance, con semplicità, con il sorriso sotto ai baffi (e che baffi!). Nei suoi desideri, ieri come oggi, c’è una terra da preservare contro le tentazioni speculative, una terra che sappia accogliere e nella quale il rispetto, la condivisione e la dimensione umana nei rapporti interpersonali possano riconquistare il posto che gli è dovuto.
Poi c’è Enzo, figlio di Oreste. I vini, in fondo, sono figli suoi. Lui l’anima tecnica cantiniera. Appassionato del proprio lavoro, teneramente introverso, senti che ama la compagnia e la discrezione. Assieme alla sua famiglia, assieme ai suoi vini, ha contribuito a fare di Brezza una istituzione, un punto fermo nel mare magnum di Langa, un approdo abituato al buon senso, alla misura e alla sincerità.
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