Questi vini sono soltanto una parte del tutto, e sono stati rigorosamente onorati nei contesti condivisi, quindi bevuti e non degustati. Non rappresentano per forza di cose il meglio che c’è, ma sono stati semplicemente la mia compagnia, il “secondo sangue della razza umana” di deamicisiana memoria, insieme ai luoghi, agli amici e agli umori. Di tutta questa parvenza di socialità sono stati il tramite, spesso il motore primo. Mi conforta immaginare che possano esserlo anche per chi ne leggerà.
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Prosecco Sul Lie Metodo Antico – Giol
Ed è stato come fare un viaggio à rebours, che mi ha riportato alla mente i vini contadini, mutevoli e cangianti, dell’indimenticato Fabio Morelli di Corneda da Barbarasco, nella profonda Lunigiana di sponda massese. Alla sua Hostaria del Buongustaio quei vini dolci-non dolci, di una onestà spontanea e senza sforzo, la cui carbonica a volte sembrava una lama, altre volte una carezza, non si facevano mancare niente, nel bene o nel male. Oltre che per i loro lieviti, quei vini “a modo mio” -così recitavano le etichette- costituivano un approdo irresistibile per i moscerini della zona, ulteriore circostanza anomala nell’anomalia del tutto. Sghembi, obliqui e selvatici quanto vuoi, restano legati a doppio filo ad una stagione irripetibile che odorava di possibilità, e che oggi non trovo più.
Ebbene, questo Prosecco della “consapevolezza nuova”, nel collegarsi idealmente alla pregnanza di quei gesti antichi, dichiara fin da subito la sua abbagliante vocazione gastronomica. Le sensazioni di fermentazione, crosta di pane, limone, nespola, zenzero e biancospino ne costituiscono la scorta vitale. Annunciano e accompagnano una trama leggera come una piuma, solleticata da una carbonica sottile, senza eccessive cadenze amare. Un aperitivo eccellente, nel nome dell’agilità e della speditezza. Di più, cangiante per come entrano progressivamente in gioco le “sospensioni”, i fermenti, che ne velano i cromatismi per esaltarne il sapore.
Un ritorno alle origini, forse. O un balzo deciso verso il futuro, chissà. Una cosa mi viene da pensarla: non sarà mica il caso di ripartire da qui, ossia da questa dimensione di vino così popolare e compagnona, per “principiare il culturale” nel mondo mio amato vitivinicolo?
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Vernaccia di San Gimignano Fiore 2014 – Montenidoli
Vin de Pays des Côtes Catalanes Blanc Esprit de l’Horizon 2015 – Domaine de l’Horizon
Alla ritrosìa aromatica del “francioso” (che viene da Calce, a un passo da Perpignan), innervata però da una vivida tensione minerale ed accompagnata da un tratto gustativo impettito e signorile, risponde la decisa saporosità della Vernaccia, vino “di bocca” per antonomasia, il cui temperamento terragno ci racconta di una personalità fiera e poco addomesticabile. Accomunati dalla concretezza e da un incedere compassato, ciò che li proietta su traiettorie eleganti, riescono a tradurre gli stimoli di vitigni e territorio in una espressività rigorosa, pura, di austera fermezza: più interiorizzata nel caso del catalano, più intensa e fibrosa in Montenidoli.
Nessun legame fra di loro, solo una evidente parentela caratteriale a fungere da acceleratore affinché il messaggio se ne uscisse forte e chiaro. Spieghiamoci meglio: impronta, stile e sottintesi non ti fanno pensare a chissà quali approdi nuovi, ma ti offrono l’impagabile conforto che solo attiene agli archetipi. Ed io, oggi, ho bisogno di certezze.
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Pouilly-Fumé Cuvée Majorum 1995 – Michel Redde et Fils
Pirotecnico e cangiante, la connaturata ricchezza aromatica trattiene a sé un barlume di dolcezza per centellinarlo con cauta parsimonia, come una canditura sottile nella percezione del frutto, ad accompagnare elegantemente la verve esotica dei profumi. Gli umori di cedro, mango, pesca, menta e vaniglia, instradati da uno sbuffo resinoso e fumé, si esaltano poi nel seducente abbraccio gustativo, lì dove il tutto si ricompone rilasciando una sensazione di equilibrio e di armonia.
Ciò che più mi colpisce, però, è l’eloquente originalità del quadro evolutivo, che a distanza di tanti anni gli consente di parlare in una lingua ancora fremente e vitale. E’ una evoluzione tutta sua, alla quale siamo poco avvezzi, lontana mille miglia dai più risaputi refrain di rimembranza borgognona (del tipo burro – vaniglia – miele – nocciola), e per questo stimolante. Lo dicevo io che è alla Loira che deve guardare l’appassionato, nel suo graduale percorso di affrancamento dai lacci emozionali – e soprattutto riverenziali – verso una certa Francia magari più blasonata ma ormai irraggiungibile, sovraesposta e snob!
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La Gazzara 2016 – Castell’in Villa
Troppo evidenti la personalità e il grip gustativo, troppo evidente la superiore dinamica. Raccolgono ed esaltano il di più, sotto la pelle del varietale. E’ un Sangiovese proveniente dalla zona tufacea ed elettiva di Castell’in Villa, nel Chianti Classico della cosiddetta “Berardenga”; un vino che assomiglia moltissimo al suo autore, che è poi autrice. Unisce il candore, l’eleganza e l’attitudine alle sfumature tipiche di una aggraziata movenza femminea alla grinta e al cipiglio di una autentica donna del vino. Una commistione esplosiva, racchiusa in uno dei bicchieri “en rosé” più buoni mai assaggiati fin qui.
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Valle d’Aosta Syrah 2013 – Rosset
La speciale declinazione ci indica una strada, una strada che potrebbe farsi maestra, se solo venisse “ascoltata” di più. Nel frattempo, la golosità di questo bicchiere chiama la tavola come pochi, senza particolari premure di abbinamento, peraltro. Chiedetelo all’amico Claudio Corrieri, giù allo Scoglietto Ristobeach di Rosignano Solvay, in provincia di Livorno, con affaccio prepotente sul mar Tirreno. Chiedetegli quanto quella cucina sorridente, di filologica ispirazione marinara, possa trarre vantaggio dal contributo inusuale di questo sanguigno e misconosciuto rosso della Vallée.
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