I Ceraudo, i loro vini e la masseria. Ritratto di famiglia, ritratto di Calabria/2

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Qui la famiglia non è solo un valore ma un organismo vivo e numeroso. C’è sempre gente a tavola e non si fa mai fatica ad aggiungere un posto: sorelle, zie, mogli, figli, nipoti, amici per un convivio continuo. È qui che si è formato il palato di Caterina Ceraudo, la figlia più giovane di Roberto, è da qui che nascono le rielaborazioni di alcuni suoi piatti, come “patata e peperone”, rielaborazione del “pipi e patati” di nonna Caterina. «Si chiama come me ed è la madre di mia madre Maria », racconta Caterina. «Quando ero piccola preparava ogni domenica pollo e patate per pranzo e io mangiavo sempre la coscia. Aveva dodici figli e le tavolate della domenica erano infinite». Ci sono altri piatti rimasti nella sua memoria: «Il baccalà di zia Mariuccia, che anche oggi non manca mai a Natale e all’Epifania. E i mangiari della mamma di Ciccio il cantiniere: pane zuccherò e caffè, l’uovo sbattuto e le lumache arrostite, un gusto che non ho ancora riprodotto».

caterina-ceraudoNata anche lei a Crotone, Caterina Ceraudo, trentenne di talento, ha bruciato le tappe del successo. Dopo il liceo scientifico si iscrive alla facoltà di enologia dell’Università di Pisa perché vuole continuare l’opera del padre. Quando parla di lui gli occhi le si illuminano, come a sua sorella Susy. «È un sognatore, un uomo coraggioso, un altruista. Mi rispecchio nel suo carattere. Per me è stata una figura di riferimento sia per la vita professionale sia per quella privata. Ha sposato la causa del biologico in tempi non sospetti e ha aperto un ristorante gourmet in Calabria quando era una pazzia anche solo pensarlo. Ha una passione contagiosa. E carisma. È una persona che tutti dovrebbero conoscere». Caterina fa due vendemmie in Toscana (a Le Macchiole e al Castello di Meleto) e poi ritorna a casa. Ma c’è qualcosa che fatalmente la attrae verso la cucina del ristorante, che dal 2011 aveva già una stella Michelin con Francesco Rizzuti. Sente una sorta di richiamo. «La cucina è cultura, conoscenza, tradizione. È scienza: fisica e medicina insieme. Non c’è nulla che non rientri o non ritorni alla cucina. Tutto inizia dal cibo del seno materno. A tavola si chiudono contratti, si fa l’amore, si discute, si litiga, ci creano ricordi, si generano emozioni, si memorizzano profumi e sapori. Il cibo stimola i sensi, l’intelletto, tutto. Stare a tavola non significa solo mangiare».

Caterina ha sempre avuto una passione per il cibo ma sulle prime era restia ad occuparsene professionalmente per le voci che circolavano sull’ambiente ruvido delle cucine. «Ma rifarei tutto e non poteva esserci formazione migliore di quella offerta dal mondo del vino, dove assume grande importanza la preparazione tecnica e la conoscenza della materia». Il punto di svolta è rappresentato da Niko Romito. «Ho fatto due mesi di stage con lui al Reale di Rivisondoli e poi i sei mesi della sua scuola. A casa volevamo un progetto più familiare che imprenditoriale. Nel 2013 mi catapulto nella cucina del nostro ristorante. Con grande angoscia. Per l’eredità di Rizzuti, la pressione e le aspettative». Il resto è storia recente: eletta tra le 100 donne dell’anno nel 2016 dal Corriere della Sera, viene citata nel 2017 dal New York Times e nello stesso anno diventa chef donna dell’anno per la Guida Michelin.

Caterina vede in Niko Romito non solo un maestro ma il riflesso creativo del padre. «Niko rappresenta i tre aggettivi di papà – sognatore, coraggioso, altruista – in epoca moderna. Niko ha scommesso su un territorio come l’Abruzzo, facendo in cucina quello che mio padre ha fatto in campagna. Rispetto assoluto per la materia prima; rispetto assoluto per la trasformazione». È così anche per lei: «La mia cucina punta alla semplicità, alla sostanza di una cosa. Se dò il pomodoro che sia pomodoro, se è patate e peperoni che siano patate e peperoni. Il modello insuperato è il carciofo di Niko».

Caterina è esigente, prima di tutto con se stessa. C’è nei suoi piatti quella chiarezza che è il punto di arrivo di una tensione, di una ricerca. Alcuni – accanto al già citato patata e peperoni, pomodoro, mela e limone, o spatola (in carpione) e cetriolo (marinato) – omaggiano l’arte di Romito. Altri si misurano con gli equilibri aromatici di due protagonisti della sua terra, il pesce e gli agrumi (dentice, bergamotto, limo e pepe rosa; spigola, emulsione di spigola, limone candito; triglia, pane e arance; polpo, pompelmo rosa, finocchio). Altri ancora – soprattutto primi piatti – dispongono all’esperienza tattile del gusto: i ravioli di melanzane e pomodoro; la minestra tiepida di frutti di mare e covatelli; il fusillone con basilico e alici arrostite; il riso ai piselli.

Il ristorante è il centro gravitazionale della famiglia. Alla sera è il loro punto di ritrovo e lavoro tra cucina, sala e terrazza. Caterina è ai fornelli, Susy presiede all’accoglienza, Roberto fa spesso capolino per una chiacchierata con i commensali. Il piacere continua durante la colazione del mattino. In sala c’è Sara, sempre un sorriso, sempre una premura. Sulla tavola c’è il sogno di qualsiasi viaggiatore: pane appena sfornato da (vero) lievito madre, yogurt al latte di pecora con insalata di frutta appena tagliata, spremuta di mandarini, tre diverse confetture, dolci da forno, fichi direttamente dalla pianta e uova direttamente dal pollaio, affettati al taglio e squisiti formaggi locali.

E poi c’è sempre lui, Roberto Ceraudo, che attraversa la sala per un saluto o per consegnare qualcosa in cucina. Una persona onesta e generosa, che parla poco e non si ferma mai. Non un patriarca, ma un lavoratore instancabile. Un agricoltore con le spalle larghe e la schiena dritta. Un uomo di valore che ha fatto dei valori in cui crede l’asse portante della propria vita.

Foto dell’autore. Nell ‘ordine: ingresso Ristorante; Caterina Ceraudo; “pipi e patati” di nonna Caterina; “patata e peperone” versione Caterina Ceraudo; il pomodoro di Caterina Ceraudo; Susy Ceraudo

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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