Incontro Claudio Plessi a “Vini di Vignaioli” di Fornovo, un evento di riferimento per gli amanti del “vino naturale”. Mi consegna due bottiglie, ambedue del 2017: il Tarbianéin, frizzante rifermentato in bottiglia, per farmi sentire la nuova annata che ha imbottigliato in primavera, e il Tarbian, che invece è in bottiglia da pochissimo. Il primo è una delle delizie del giardino ampelografico di casa Plessi, il secondo un vino cui mi avvicino con qualche riserva non priva di interesse e curiosità, come in genere mi capita di fronte ai bianchi macerati sulle bucce, anche quando sono buoni.
Il Tarbianéin proviene da una rara varietà autoctona del modenese, la trebbianina, meglio conosciuta localmente come trebbiano di Spagna. Poco diffusa per la sua scarsa produttività (soffre di problemi di allegagione, ha un grappolo lungo e spargolo con un raspo piuttosto grosso), è oggi perlopiù impiegata per la produzione dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. Il vino ha colore giallo dorato intenso e brillante che non proviene dalla macerazione, ma dalla natura stessa di quest’uva straordinaria e dimenticata. Il naso è un pullulare di sensazioni: rifermentazioni di campagna, frasche e prati in fiore, zagare e margherite, le spighe del grano, agrumi freschi, fiori gialli, cedro e camomilla, un sollevarsi di freschezza dal tratto semiaromatico (un’altra delle virtù inserite nel Dna di questo vitigno). Il palato, animato da una carbonica vivace, è succoso, pieno, teso, contrastato, dritto, l’acidità è un sollievo, il sapore è profondità, la persistenza si riempie di erbe e agrumi e peperone giallo.
A lungo considerato “fuorilegge” (a metà degli anni Settanta non fu inserito nell’elenco delle varietà autorizzate) e solo di recente (anno di grazia 2009) inserito nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite, il trebbiano di Spagna è una delle primizie del vigneto Molinazza, poco più di tre ettari lungo lo stradello Monari, nella campagna fuori dall’abitato di Castelnuovo Rangone, dove dimorano vitigni antichi e dimenticati: uva tosca, spergola, grappello, sgavetta, lambrusco di Fiorano o lambruscone, alionza, occhio di gatta, festasio, uva ruggine, forcella, ciocca, piccola nera (un’uva non ancora registrata che già chiamano prato Plessi)…
L’impianto, curato come giardino botanico, risale al 2000, ha pali in legno di castagno e acacia, piante di albicocco nel mezzo, terreno franco argilloso e limoso attraversato da una striscia di sabbia del rio Tiepido («Una volta c’erano i gamberi e quando ci sono i gamberi non hai bisogno di fare analisi»). Ma la storia vitivinicola di casa Plessi risale più indietro nel tempo, al 1958. «In quell’anno è stato impiantato un ettaro di vigneto a raggiera -o Bellussi- con del Grasparossa, del Maestri e del Sorbara che venivano conferiti alla Cantina Sociale di Settecani e al CIV. Nelle piantate del prato erano rimasti del trebbiano modenese e altre uve. Con sgavetta e grappello si faceva il vino per la famiglia (eravamo in dieci) e per i parenti. Trascorsa l’epoca della pigiatura con i piedi (prima della guerra si produceva vino in gran quantità, perché c’erano molti preti, la gente aveva poco da fare, si pestava l’uva con i piedi e si faceva vino in tre tini giganteschi) si è passati alla pigiatura con un motore a scoppio che azionava il “grattone”, simile a una grossa grattugia per spappolare le mele. Non si è mai diraspato. Il pigiato veniva messo per tre giorni nel tino senza follature e una metà veniva torchiata. Dopo la svinatura si estraeva la vinaccia dal tino (dove ci entravo io che ero il più piccolo) con forcale e secchio. La vinaccia veniva torchiata e unita al mosto fiore. Stiamo parlando della fine degli anni Sessanta, in cui non si produceva più il “vino sottile”, che si faceva togliendo il mosto fiore dal tino con aggiunta di acqua. Un tempo non si facevano follature, alla prima levata del cappello si svinava, non erano vini scuri, il cappello non era non era mai immerso e non si sentivano le puzze del Grasparossa nelle botti di legno. Tutti gli attrezzi venivano lavati con il vino e non con l’acqua, così non si formavano le muffe».
Plessi comincia i suoi primi imbottigliamenti nel 2005 («Ho cominciato perché ho sempre voluto vinificare in purezza le vecchie varietà e poi la cosa mi è piaciuta. Una cosa stupefacente»). La conduzione del vigneto è biologica con inerbimento naturale. Ex professore di scienze agrarie presso l’istituto professionale Lazzaro Spallanzani di Castelfranco Emilia e di Vignola, ex ricercatore presso le università di Piacenza e di Parma, e il CNR di Bologna, Claudio è un uomo dal fare pacato ma con il piglio determinato tipico del militante (ha fatto parte di Avanguardia operaia e nella seconda metà degli anni Settanta è stato presidente di Radio Cooperativa Modenese, una radio libera del periodo). Precursore e portavoce del biologico in Italia, dal 1987 al 1992 è stato socio fondatore del consorzio produttori biologici Il Salto e nei primi anni Novanta del progetto GRETA (Gruppo Energia Territorio Ambiente), nonché coordinatore di corsi sull’agricoltura biologica e sull’omeopatia applicata all’agronomia. È uno dei firmatari della “Carta degli intenti dei Vignaioli Artigiani Naturali”: il suo vino è ottenuto da uve coltivate secondo agricoltura biologica o biodinamica, prodotto con fermentazioni spontanee, con un basso contenuto di solforosa totale (massimo 40 milligrammi per litro, indipendentemente dal tenore di zuccheri residui), senza l’aggiunta di additivi o coadiuvanti enologici, senza trattamenti fisici invasivi come osmosi inversa, filtrazione tangenziale o sterilizzante, pastorizzazione, criovinificazione, ecc. Ci si rivolga a lui per conoscere Alfonso Draghetti, un antesignano del movimento biologico che nel secondo dopoguerra ha scritto un testo fondamentale come Principi di fisiologia dell’azienda agraria (1948), «un libro sul biologico prima del biologico».
Plessi applica principi radicali nel nome di un’agricoltura sostenibilee di un vino che sia il frutto di uve sane vinificate nel modo più naturale possibile. Capita quindi che il suo Tarbian del 2017 non abbia finito la fermentazione e sia rimasto leggermente abboccato (3,5 grammi residui di zucchero). È un bianco fermo da uve trebbiano modenese, un vitigno ampiamente diffuso nella pianura modenese che in genere «dà un vino tremendo quando viene fatto dai cantinoni», ovvero dagli imbottigliatori dell’industria. Fermo ma non propriamente secco. Non almeno in questa versione. «È venuto così, i lieviti sono andati in ferie e si è interrotta la fermentazione». Fa macerazione sulle bucce per una settimana e matura in una barrique nuova di ciliegio e castagno («Un legno usato tradizionalmente per le nostre botti, sulle nostre colline c’è sempre stato il castagno»). Ha colore giallo grano brillante e un sapore antico, contadino, artigianale. La tenue dolcezza residua gli conferisce una rotondità sul tannino, che, secondo Plessi, gli arriva più dalla botte nuova che non dalla macerazione. Quello che di solito, in questi bianchi fermi da macerazione, ostacola la finezza (il profumo e il sapore delle bucce, la rugosità dei tannini) è qui sublimato da una morbidezza che arrotonda, coccola, seduce.
È un vino goloso, un vino del quotidiano, un vino semplice – o finto-semplice, apparentemente semplice – che concilia il gusto con un piacere arcaico e immediato: il colore acceso, i profumi floreali, la rotondità gustativa. Non stai a decifrarne le analogie o i descrittori, te lo godi e basta. Mangiando. Riportando il vino al suo ruolo di alimento, a un piacere primordialeche ti accompagna con il suo sorso succoso privo di scavi sensoriali o pensieri a bordo bicchiere. Le erbe mediche e officinali di quel finale le tralasci dal tuo dire nel nome di un nuovo bicchiere per una gioia che si rinnova, spensierata. Dimentichi i principi del fare e del coltivare, le tecniche di vinificazione, le cifre degli elementi primi che lo compongono, le analisi, i dati (quanti giorni di macerazione, a che temperatura, quanto alcol, quanto zucchero, quanta solforosa?) e ti abbandoni al piacere, a quel piacere che un nome non ha ma che si è fatto ormai chiaro e inequivocabile.
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