Dalle Langhe un Barbaresco-femmina di grazia e consistenza uniche (e ancora sono troppo pochi coloro che si filano queste vere e proprie artigiane del vino).
Dall’Appenino tosco-romagnolo di Modigliana la sorpresa delle sorprese, con una idea forte di territorio dietro.
Dalla Borgogna un vino che ispira la solennità di un silenzio, da che le parole le contiene già tutte.
Da Diano d’Alba un eroico Dolcetto d’antan, figlio della terra sua e di un concetto sano di “contadinità”.
Sono loro le libere parole.
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Mosel Riesling Graacher Himmelreich Auslese 2007 – Joh. Jos. Prüm
Sapete cosa c’è che passa oltre la logica e fa la differenza? C’è la razza, la razza innata, discendenza diretta di una delle poche firme del vino teutonico che non è solita piegare le ragioni del terroir ai compromessi del formalismo tecnico. Solo così possiamo dare un senso a tutta questa profondità.
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Barbaresco Ovello 2011 – Gigi Bianco
Poi conosci Susanna Bianco, e conosci sua madre Maria Vittoria, le anime-femmina di questa piccola cantina che sta ai piedi della torre antica di Barbaresco, e capisci che prima di tutto c’è l’etica del lavoro, prima di tutto viene la terra. L’umiltà e il loro umano candore sono doti che non si dimenticano. E poi nei loro gesti c’è ancora spazio per la meraviglia, per la scoperta ammirata di una emozione tutta nuova, come un vino che cresce. Nessuna prosopopea qui, nessuna assuefazione all’ovvio. Le parcelle possedute nei cru “parlanti” Ovello e Pora sembrano trarre vantaggio da questa attitudine caratteriale.
Nel Barbaresco Ovello 2011, ad esempio, saldezza ed eleganza si sono maritate per amore. Un legame profondo e inscindibile, dove il ricamo floreale, il portamento e la filigrana minerale osano talmente tanto da disattendere le potenziali insidie di una annata calda, facendosene un baffo. E io ancora non mi spiego tutto questo silenzio, tutta questa misconoscenza, tutta questa distrazione.
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Ecce Draco 2016 – Mutiliana
Le uve provengono da una vigna del 2004 piantata nella Val Tramazzo di Modigliana, a 600 metri sul livello del mare, i suoli sono quelli poveri e sciolti delle marne e delle arenarie che ci sono lì, i metodi quelli che danno confidenza ai lieviti indigeni e alle lunghe macerazioni, gli affinamenti quelli condotti rigorosamente in cemento, brillante “traghettatore di territorio”.
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Vosne Romanée 2002 – René Engel
La Borgogna d’altronde sembra davvero condensare tutto il meglio che c’è: ha dalla sua la storia, la nobilitazione della figura del vigneron, la suggestione della rarità, l’eloquenza di certi conseguimenti, l’ossessione del terroir, la fiorente aneddotica, l’inoppugnabile consapevolezza della sua gente di far parte di un mito, l’orgoglio e l’amor patrio. Non può che sbaragliare il campo. Anche per via di questa ridondanza di privilegi trovarmi a parlare di Borgogna suona strano e, paradossalmente, di deja vu. Niente di meglio, verrebbe da pensare, per una prudente presa di distanza emozionale.
Poi però arriva lui, il Vosne Romanée 2002 di René Engel. E ti accorgi che in lui sono contemplati il sublime e l’impalpabile, nonché la capacità di trasportarti in ogni dove senza che tu sappia opporgli resistenza alcuna. Ti rappacifichi soltanto grazie al miracolo inatteso: poter fare a meno delle parole. Nessun racconto più, nessun ragionare in sua compagnia: finalmente un vino di Borgogna che ti inchioda al silenzio. Ci voleva.
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Dolcetto di Diano d’Alba Sorì del Bartu 1985 – Simone Castella
Simone Castella ha incarnato in modo filologicamente perfetto la figura del vignaiolo artigiano, molto più di altri. Dietro il volto affilato cela un’indole taciturna e una profonda umiltà. Ha amato tanto la terra di Diano d’Alba e ha onorato il Dolcetto di un amore incondizionato. Sono stato fortunato a conoscerlo, tanto più se questi sono i risultati.
Sorì del Bartu ’85 è struggente e vivo, ora e qui. Incredibile la tonicità, già a partire dal colore, e melodioso il modo con cui ancora si concede. Ché il tempo, di fronte a cotanta eloquenza, sembra essersi arrestato come in ossequioso rispetto.
E a me adesso non resta che partire per tornare lassù, nel balcone delle Langhe, e poterglielo dire di persona.
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Nella prima immagine: “Uomo con brocca che canta” di Adriaen Brouwer, pittore fiammingo del XVII secolo