Ci riferiremo quindi a quella mèsse di vini ambiziosi costituiti da vitigni internazionali, principalmente di matrice bordolese (ma non solo), espressi in purezza e in blend, o accompagnati tuttalpiù dal sangiovese nel caso di alcune referenze provenienti dall’areale chiantigiano (ma non solo). Ovviamente, tutti ricadenti nel bacino grande dei vini a IGT.
Ora, riferirsi a questa “roba” qua significa in fondo testimoniare di come una legittima volontà di ampliamento di una proposta, o l’aspirazione altrettanto comprensibile ad un appetitoso orizzonte di business ( è indubbio che i Super Tuscan di tal fatta abbiano aperto brecce importanti a livello internazionale, più che nostrano, dal punto di vista commerciale), si siano inevitabilmente trasformate in una ricerca di nuove vocazioni, sia pur con i più disparati obiettivi: dall’indirizzamento verso tutti quei mercati ben disposti ad accogliere vini che propongano determinati registri stilistico-espressivi, alla motivata curiosità di sperimentare quanto un territorio possa plasmare un varietale a propria immagine, concorrendo se del caso a un rafforzamento di identità e di genius loci.
Eppure i nostri Super Tuscan, fra ferite e orgoglio, disamori e ritorni di fiamma, sono ancora lì, sulla breccia. Alcuni cercando di dissimulare ad arte la tentazione apolide che si annida nei meandri di una fisionomia meticcia, altri affinando le trame fino al cesello, per arricchire di inappuntabili leziosismi un alveo espressivo a rischio di omologazione; altri ancora impegnandosi a trasmettere una identità di stile, più che di territorio, senza troppo pensare se sia veramente il caso. Poi ci sono quelli che proseguono imperterriti sulla strada del “vecchio stile moderno” a suon di attributi e prestanza fisica, in un’ottica di generosa abbondanza e, a volte, di disagevole opulenza, puntando più all’irretimento dei sensi che a uno spontaneo coinvolgimento emozionale. E infine ci sono gli indimenticabili, veri e propri “costruttori di contenuto”: per disinvoltura di passo, caratterizzazione, identità territoriale, potere seduttivo.
Però, alla luce delle nuove annate e dell’attuale andazzo, c’è da dire che stiamo progressivamente assistendo a un generale alleggerimento nei toni, che non coinvolge ovviamente (e purtroppo) tutto lo scibile, ma che quantomeno va a stimolarlo. Più raro è infatti incontrare vini ostinatamente limacciosi e impenetrabili, in perenne disarmonia con sé stessi, più frequente invece osservare un passo indietro quanto a baldanza, a favore di un maggiore equilibrio espositivo; così come l’apertura a nuove sensibilità agronomiche, a pratiche di cantina meno invasive, all’impiego di contenitori per l’affinamento meno convenzionali.
Insomma, una mano calibrata per disegnare Super Tuscan finalmente più sensibili alle ragioni della bevibilità e più in linea con i gusti di un CCC (consumatore consapevole contemporaneo), fermi restando che la volontà di produrre vini “ambiziosi” utilizzando vitigni come la famiglia dei cabernet, il merlot o il syrah, può indirizzare su strade per certi versi obbligate, dove occorre mettere nel conto un certo virgulto di base, perché non è che da quei vitigni, coltivati a certe latitudini, possano nascere dei “vini-aliante”.
Per ragioni di chiarezza espositiva abbiamo suddiviso il repertorio delle note di degustazione in due famiglie, “dalla costa” e “dall’interno”, per procedere poi a un incasellamento delle aziende per ordine alfabetico, con le predilezioni e i distinguo da cogliersi a seconda delle parole o dei silenzi. A onor di puntiglio, accanto al nome di ciascun vino abbiamo indicato composizione varietale, comune di provenienza e (nota dolente?) prezzo medio in enoteca al netto delle speculazioni.
Ah, data l’ampiezza della narrazione, chiedere scusa ai pazienti lettori è più che un dovere.
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DALLA COSTA
Schietto, sanguigno, di selvatica naturalezza, possiede un invidiabile senso della dinamica e un filo di verzura che, assieme al tannino nervoso, ne alimenta e quasi ne amplifica la vocazione gastronomica. Sottopelle eppure cela il candore, agevolato da una struttura proporzionata e senza eccessi. E poi lo riconosci, perché il respiro è quello di un vino libero.
Il suo lato viscerale accarezza e sfiora la sensualità, con l’energia e il calor’alcolico a indirizzare i sapori su desinenze di chiara matrice mediterranea, da cui emergono suggestioni di visciola, eucalipto, mirto, erbe selvatiche, ma senza esacerbazioni vegetali. E’ quel tannino scalpitante, casomai, a suggerirci che è ancora presto per avere di ritorno una melodia più compiuta.
Sostanzioso, caldo, compatto, dal frutto maturo e dal tannino robusto, a ben vedere non si piega affatto ad essere considerato un vino solo “maremmanamente” ricco, perché a muoverlo ci sono i contrasti. E poi il tempo gli sarà compagno.
Ampio, gustoso, diffusivo, sostenuto da una freschezza che non molla e da una stratificazione di spezie vaporosa come una nuvola, con il suo passo disinvolto concretizza la fisionomia di un vino intrigante dalla personalità non urlata, che poi in fondo è il suo nome.
In barba al significativo tenore alcolico, rilascia una sensazione di freschezza grazie all’ariosità di trama e alla coloritura balsamica dei suoi profumi. Qui concentrazione naturale di materia, legni buoni, e un tratto gustativo che può aspirare alla sensualità.
Iodio, erbe, china calissaia ed essenza di piccoli frutti del bosco. Possiede freschezza e naturalezza, ritmo e adeguate proporzioni, e poi ancora levigatezza tattile e dolcezza di tannino. C’è che il varietale lui lo declina con spigliata disinvoltura, ecco cosa c’è.
Un vino trasfigurato nel verso del ritmo e del contrappunto gustativo, grazie ai nuovi approcci e ai nuovi terroir: facendo leva su una aromaticità sfaccettata dall’abbrivio floreal-speziato, risulta oltremodo fragrante e si beve benissimo, elevandosi per compostezza, eleganza e succosità. Un’altra luce.
Conclamato spirito “bordolese”, integrità di frutto, intonazione profonda e viscerale. E una confortante sensazione di freschezza a controbattere pienezza e calore. A guadagnarne sono il grado di contrasto e la capacità seduttiva.
Il coté pirazinico ne agevola la freschezza e la “speditezza” aromatica, mentre in bocca si offre con passo cadenzato, svelando una pienezza senza eccessi. Tende semmai ad asciugarsi un po’ nel finale per via della montata tannica, che suggerisce gioventù e attesa. Il futuro, difatti, potrebbe riservare per lui un’espressività più disinvolta.
Potente, intenso, viscerale, finanche umorale. In una parola: giovane. Però percepisci come tutta ‘sta “presenza scenica” sia farina del suo sacco, e come la ricchezza sia in fondo una ricchezza dettagliata. E’ un portavoce sincero del suo territorio, questo è, naturalmente energico, certamente profondo, supportato da un’enologia più che attenta.
Un Avvoltòre in spolvero, che ancor di più ci colpisce se pensiamo all’annata da cui discende, che in generale non ha fatto sconti, a queste latitudini, portando in dote attributi di cui avremmo fatto volentieri a meno. Niente di tutto ciò in questo bicchiere: il calore si fonde – e si confonde – con un disegno elegante, espressivo, ben modulato, corroborato da un allungo sapidissimo e succoso. Soprattutto, senza impedimenti.
Con il suo profilo longilineo, speziato, fresco e succoso, innervato di contrasti e quasi verticale nella dinamica (solo un po’ stretto e affilato, semmai), disegna traiettorie nuove all’interno della compagine “petresca”, dacché contempla la misura.
Il Syrah come dev’essere: frutto (maturo) del bosco, naturale energia, golosità, tannini soffici, vivacità, e profumi che si “muovono” cangiando. Il rosso più equilibrato e più sciolto della casa.
Un’energia tutta convogliata in dinamica, una potenza misurata e una naturalezza espressiva che non è roba normale, con vini di questa genìa. E’ giovane, fresco, carnoso, elegante, ampio e futuribile. E ha un sale finale che ne traghetta il sapore su approdi di distintiva identità.
Non più un comprimario, se parliamo di tipologia e luogo di origine. Prova ne sia questo brillantissimo 2020, che sfoggia una misura, una fluidità e una freschezza gustativa avvincenti, condensate in un sorso equilibrato e dinamico.
Il lato introspettivo, se getta un’ombra passeggera sul dettaglio aromatico, concorre certamente al lignaggio. E’ un rosso pieno, caldo, strutturato, ma senza che ti faccia sentire troppo il peso dei suoi attributi certi. Il profilo compassato annuncia signorilità, e non era scontato. Chiede tempo, quello sì.
Della Syrah ne illumina le intimità, perdendosi nei mille rivoli di una trama invitante e flessuosa, fondata su un prezioso ricamo aromatico e su una connaturata agilità di beva, con la freschezza che è prima di tutto integrità di frutto e materia fremente, e con l’ascendente mediterraneo capace di sublimarsi nel dettaglio sottile e in un’ariosità di trama quasi nordica.
DALL’INTERNO
L’interpretazione in chiave moderna trova un provvidenziale equilibrio grazie alle giaciture da cui il vino discende, portatrici sane di acidità e contrappunto gustativo. E così può accadere che una consustanziale ricchezza strutturale vada a distendersi su traiettorie di raffinata, setosa sensualità.
Con una energia compressa e una confezione deluxe, è vino grondante, spesso, materico, dal tannino scalpitante e dalla dinamica allentata, marchiato nel profondo da un disegno stilistico un po’ spinto.
Bella compostezza qui, e un brillio di agrume che annuncia una certa raffinatezza nei modi, con il calore temperato dalla freschezza, e con un disegno più risolto (e disinvolto) rispetto ad alcune edizioni del passato, maggiormente segnate dai legni di “elevaggio” e dai pruriti estrattivi.
Un incredibile senso della dinamica, un ritmo incalzante, un frecciarossa di piacere. E una leggerezza piena di senso. Ha talmente tanta roba dentro -dacché la sua è una ricchezza esclusivamente interiorizzata- da ridartela tutta indietro con generoso trasporto e invidiabile nonchalance.
Una ritrovata verve, più orientata all’equilibrio, alla finezza e al dettaglio rispetto alla china presenzialista del passato, permea di sé tutta la linea, coinvolgendo anche i Super Tuscan, con un Corbaia in grado di conquistarti grazie al signorile contegno e a una fisionomia di vino profondamente boschiva e chiantigiana, di bel bilanciamento acido-tannico.
E’ un risvolto terroso ad annunciare un vino avvolgente, “d’avviluppo”, pur senza risultare inopportunamente aggressivo. Di apprezzabile dignità territoriale, nonostante lasci trapelare un certo temperamento alcolico sa farsi convincente per sincerità espressiva e propensione alle sfumature.
L’ampiezza aromatica è quella di un vino che respira: succoso, elegante, di calibratissima maturità fruttata, la sua trama si muove con garbo per poi allungarsi perentoriamente nel finale, alimentata dai ritorni sapidi e scortata da un tannino la cui dolcezza è puro conforto.
Una melodia speziata quasi “siraeggiante” accompagna un fiato mentolato dai risvolti di macchia mediterranea; in bocca è flessuoso, nitido, lineare nello sviluppo e molto gradevole, solcato da un tannino di ottima qualità.
Fresco, vibrante, speziato, in apparenza senza peso pur essendo materico e cromaticamente saturo, è un vino sapido e sciolto, che dimostra grande naturalezza. Come una farfalla in un corpo di elefante, ed è una bella sensazione.
La materia è tanta e pure buona, il tratto è avvolgente, quasi pastoso, il disegno generosamente dispiegato. Calore e potenza sortiscono comunque un effetto di piacevolezza e di succosità.
Materia viva e vibrante, modulazione nei toni, legni buoni e un tatto levigato, solo increspato da leggere asciugature finali. Non per questo vengono meno le proverbiali fondamenta eleganti.
Probabilmente còlto in una fase dialettica della sua parabola evolutiva, ne apprezzi la compattezza e la densità, anche se l’esplicitezza fruttata e l’imponenza tannica non ne agevolano la piena distensione, fra sbuffi eterei e note vanigliate. Di certo materico, potenzialmente profondo, l’annata stimolerebbe una certa raffinatezza, ma solo il tempo ne scoprirà le carte.
Ricco, morbido, accomodante, sconta qualche eccesso di dolcezza lungo lo sviluppo, con il frutto che tende a spalmarsi sul palato. Il finale, sia pur reattivo, non nasconde una certa rugosità.
Le uve cofermentano e il sorso scorre disinvolto su un tappeto balsamico dal tatto di velluto. Nessuna sovrastruttura qui, nessun di più, nessun freno tannico per una corsa tutta in scioltezza, attestata da una pregevole misura di passo.
La saldezza, la qualità della materia, la limpidezza aromatica, l’articolazione. E quel finale incredibilmente luminoso capace di sfrangiarsi in cento sfumature diverse senza fartene perdere nemmeno una. Non ho ricordi di un Poggio de’ Colli così risolto e convincente.
Polvere pirica, mineralità e un mare di spezie per una trama flessuosa, contrastata, dinamicissima, con una tessitura da grand vin. Riconoscibile fra mille, e quindi identitario, è Caberlot.
La concentrazione non ne limita succosità e vivezza, e la corrente acida che lo innerva, d’altronde, contribuisce maledettamente bene allo scopo, oltre che ad affinarne i lineamenti. Ci stanno quadratura ed articolazione, e una trama dinamizzata da una speciale leggerezza nonostante le apparenze materiche.
Ritrova la signorile compostezza delle edizioni migliori, e quella sobria eleganza che è poi la sua cifra. E’ balsamico, floreale, “mirtilloso”, sensuale, levigato, lungo, anzi, molto lungo. Di una compiutezza rara.
Non apparenta il portamento di Camartina, e forse non brilla neanche per originalità, ma l’integrità della materia e la dolcezza dei suoi tannini non ci parlano soltanto di accuratezza formale, e di questo ne va dato atto.
Il lato selvoso ne rende umorale e meno scontato il profilo, dove in fondo sono la freschezza e l’integrità a dare indirizzo e sostanza a questo gaiolese sanguigno e reattivo, con un plauso ulteriore se solo pensiamo all’annata (infìda) da cui discende.
Frutto maturo ed effluvi balsamici in un vino turgido, sferzante, vitale e incredibilmente fresco nonostante le apparenze, in grado di interfacciarsi con movenze femminee ben oltre la viscerale sua prestanza. Ancora giovane, quello sì.
Non è esente da cliché, e ben si appiglia a una smaliziata perizia formale. Ma se l’influsso del rovere rende meno originale il quadro, la polposa sua fittezza resta bilanciata da un piglio aromatico molto fresco, di ascendente bordolese, fondato su una timbrica erbaceo-mentolata. A guadagnarci, in fondo, è l’eleganza, nonostante l’ombra di qualche déjà vu.
Inaspettatamente massiccio e “caffeoso”, la robusta costituzione tende a sconfinare nella risolutezza materica, e ora come ora non sembra propriamente a suo agio con le ragioni della dinamica e del garbo espositivo.
Armonioso, piccante, gradevole e centrato, sostenuto da una bella corrente acida e da una limpida dolcezza di frutto e di tannino, non lascia spazi utili a ridondanze o ad occlusioni, facendosi convincente per misura estrattiva e maturità stilistica.
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