Ristorante Giglio a Lucca, o delle felici contaminazioni

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di Fernando Pardini e Lorenzo Coli

img_4815Il Giglio, a Lucca, è ciò che non ti aspetti, e lo stridore emozionale fra atteso e inatteso garantisce all’esperienza un risultato invidiabile: la sua unicità. Tutto parte da un’apparente dicotomia, da un lato la sobria compostezza di un ambiente amabilmente retrò ricavato nel settecentesco palazzo Arnolfini, già casa natale di Felice Matteucci (do you remember il motore a scoppio?), la cui eleganza austera si diffonde con coerenza nell’ampia sala da pranzo haute bourgeoisie, fulcro vitale del locale, che verrebbe spontaneo associare ad una cucina orgogliosamente classica, magari fra terra e mare come accade sovente da queste parti, a maggior ragione se sei a conoscenza che Il Giglio nasce come una costola della Buca di Sant’Antonio, ristorante-baluardo della tradizione lucchese la più pura.

Dall’altro lato c’è la demolizione di ogni aspettativa (di ogni certezza?), annunciata dall’estrema gioventù del personale di sala e di cucina e portata a termine da una proposta felicemente contaminata e come affrancata dall’obbligo del tributo localistico; un “taglio alla Fontana” che squarcia il classicismo delle forme architettoniche e le più radicate consuetudini gastronomiche. Non una cesura, beninteso, casomai una breccia ad aprire prospettive nuove su altre sensibilità, altre culture ed altre possibilità, senza per questo abbandonare certi capisaldi costituiti da materie prime anche nostre. Parafrasando Kerouac, un invito al viaggio per la sola esperienza del viaggio. Possiamo solo immaginarci la meraviglia del commensale ignaro. Cosa che d’altro canto non siamo noi, tornati al Giglio ben consapevoli ed oltremodo vogliosi di intraprenderlo quel viaggio.

chef_2Unicità nell’unicità, la cucina non è presieduta da un solo cuoco, ma è un discorso a tre teste e a tre cuori, tre giovani cuochi di pari dignità gerarchica che stanno realizzando un piccolo miracolo, da che sembrano davvero mossi da una autentica passione e da una sincera amicizia: Lorenzo Stefanini, figlio della proprietaria Paola Barbieri, Benedetto Rullo, laziale, amico di Lorenzo fin dai tempi degli studi “cucinieri”, e Stefano Terigi, anch’esso lucchese ma con discendenze versiliesi e sudamericane.

La cucina è apparsa in ulteriore crescita di consapevolezza, pienamente sintonizzata sulle direttrici ideali e sulle “visioni” che ne hanno indirizzato la linea fin dagli esordi – come si può evincere dall’attuale menù rispetto a quello di un anno fa-  e in grado oggi di mantenere una pregevole chiarezza espositiva in ogni realizzazione. Non c’è mai confusione nel piatto, gli ingredienti sono bene a fuoco e la tecnica, che c’è ed è di alta scuola, non prende mai la scena da protagonista. Saranno bensì le influenze curricolari dei tre moschettieri a tinteggiare e a caratterizzare i piatti: talvolta si vola in estremo Oriente (Giappone, Cina), altre volte nel mondo della cucina selvaggia, nuda e cruda tipica dello “stile nordico”, anche se i richiami più forti assumono i sapori e la sostanza della scuola transalpina.

Notevole la declinazione delle note acide che si snodano di piatto in piatto, delineate da ingredienti fra i più diversi e da tecniche ingegnose. Si va dai classici agrumi all’impiego di spezie come il pepe sancho, fino all’utilizzo del lievito madre a mo’ di ripieno per i “bottoni”. Nota di merito per l’eccellente pane realizzato con l’80% di farina buratto e un saldo di farina di farro: crosta saporitissima, mollica che sembra una nuvola, per l’occasione accompagnato dal gustoso olio evo della locale Tenuta Lenzini. E ulteriore nota di merito per l’interazione con la sala, che vede frequentemente gli chef uscire per presentare le loro creazioni o per finirle al tavolo.

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Gli amuse-bouche ci hanno fatto subito capire che quella sera, probabilmente, ci saremmo avventurati in un luna-park del gusto. Le arepas , leggerissimi dischi di farina di mais cotta, poi seccata, impastata e fritta originari del Venezuela (patria della madre di Stefano), fanno da croccante supporto alla fresca cremosità di un caprino vitalizzata dall’acetosella; l’insalata di patate con chips di patata dolce è il perfetto pendant per esaltare il caviale di muggine, le cui uova vengono marinate con aringa affumicata e nero di seppia. Un mezzo gradino sotto, quanto a coinvolgimento, la chips di topinambur e porro bruciato.

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La testa di gambero rosso, mandorle, lime e caffè è goduriosa, da prendere con le mani e strizzare in bocca. Sono le persistenti note tartufate del crostaceo a chiudere felicemente l’esperienza gustativa, perché è lui il comprensibile protagonista, aldilà degli accostamenti.

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Il percorso vero e proprio parte con il bòtto. Il consommé di manzo ci ha fatto sobbalzare sulla sedia: è profondo, persistente, “baritonale”, definitivo. Con il grano di pepe sancho a regalare note fresche e vibranti, quasi fosse un soprano.

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La capasanta, dalla cottura ineccepibile, è carnosa e priva di quelle frequenti note derivanti da una eccessiva tostatura che ne avrebbero soffocato l’eleganza a favore di una sensazione caramellizzata coprente. In questa versione è accompagnata da un “tagliente” dashi ottenuto da cedro, limone, lime, chinotto, pompelmo rosa e mandarino. La quadra del piatto è compito della salicornia, con le sue note linfatiche ed estremamente sapide.

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Fave, piselli e taccole ricordano la “garmugia” lucchese, accompagnate qui da tartufi di mare, fasolari e cannolicchi crudi e da una bisque “in bianco” degli stessi conchigliacei, finita sapientemente con un goccio di panna a legare. Questo è un piatto che celebra la primavera così come la interpreterebbe un grande cuoco d’Oltralpe, ed è uno dei must della serata.

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L’asparago bianco con ricci di mare, capperi di sambuco e amaranto croccante è molto interessante. Forse l’unico piatto del menù dove non c’è un reale contrappunto acido, senza che però questa mancanza ne pregiudichi la riuscita.

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L’ostrica con puntarelle, rapa rossa, salsa agli umori dell’ostrica e vermouth dry parte come un “ostinato” di batteria, tutte le componenti sembrano andare vettorialmente in “direzioni ostinate e contrarie”. E’ la rapa rossa -cotta in acqua e aceto- a raccordare il piatto, come un bassista in un quartetto jazz. Ancora una volta l’ineccepibile salsa grida “vive la France”, e la suggestione prevalente, efficacissima, è quella di assaporare un cocktail solido. Imperdibile!

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Il rognone di coniglio, dalla pregevole e tradizionale cottura in padella, è accompagnato da un beurre blanc all’angostura; ricco ovviamente, ma caratterizzato dalle note bitter/acide che ne stemperano la sostanza, mentre i petali di rosa sottaceto propiziano l’acuto che chiude il cerchio.

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Tremendamente golosi i tagliolini di alghe alle cicale di mare, perché la pasta è sempre la pasta.

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Il risotto al pomodoro, cetriolo e noce moscata farebbe pensare ad una dimenticanza dello chef, vista l’assenza del colore rosso: in realtà qua si usa il succo estratto dai pomodori verdi come brodo di cottura. Il risultato è buono ed equilibrato: le decise note acide vengono stemperate dalla parte grassa del burro e il profumo di noce moscata e cetriolo alla griglia realizza un piacevole coté aromatico.

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Il primo piatto “nudo e crudo” è il bottone ripieno di lievito madre in consommé di radici. Il lievito viene cotto in forno e usato come base per una emulsione che costituirà poi il ripieno del bottone stesso. Altro colpo di classe il consommé di radici, che ci ricorda la profondità e la capacità di dettaglio di un “liquido” simile assaggiato dal “cuciniere” Salvatore Tassa in quel di Acuto.

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Degno della cucina dei grandi maestri nordici è il colombaccio: brunìto in padella di ferro poi appeso sopra la stufa per tutto il servizio e infine affumicato con le erbe aromatiche. La cottura è al blue anche se gli umori sono ben fermi nella carne. A finire, una corposa salsa di sangue dello stesso colombaccio e whiskey torbato a richiamarne l’affumicatura. E se forse manca un vegetale a completare la preparazione, ulteriore declinazione sul tema è costituita dal delizioso paté di fegatini dello stesso volatile, in un abbinamento al suono tanto bizzarro quanto riuscito di anguilla affumicata e  tamarindo.

La parte “savoury” del percorso termina con la coda di gambero rosso servita con una rinfrescante granita di mela verde e zenzero. Chiusura con un classicissimo e buonissimo tiramisù seguito da un defatigante shot di frutto della passione e chinotto. Un duetto in dolce/fresco che ci indica semmai un’area di possibile miglioramento, quella dei dessert, forse non egualmente ispirata come tutto il resto.

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_mg_8927E se il menù degustazione a sorpresa, volendo rappresentare la contemporaneità del pensiero creativo in atto, difficilmente annovera pietanze presenti sulla carta, in quest’ultima noterete la provvidenziale assenza di ovvietà e la brillante intuizione di mischiare “cose locali” ad accenti ed ingredienti più lontani, che non dimenticano le erbe, le radici, i fondi e le salse. Invece, per i commensali più restii ad essere trasportati in un viaggio “oltre le mura”, nessun problema: le piccole sezioni “dalla tradizione” e “ dalla brace” sono lì apposta per togliere patemi e rilassare con gusto.

_mg_9054I prezzi? Alla carta ci si attesta sui 40/45 euro per 3 portate e un dessert, mentre il menu degustazione da sette portate costa 70 euro. Nulla da eccepire.

Ah, non dimenticatevi di stimolare e mettere alla prova Francesco Massagli e Daniele Grieco, rispettivamente mâitre e sommelier del Giglio, perché dalla carta dei vini  – pensata e non imposta – lampeggiano interessanti direttrici stilistico- interpretative orientate sull’autenticità dei gesti e su una personalità anche “via dalla pazza folla”. E poi in questi due giovani professionisti senti scorrere viva la passione per la materia del contendere: unita alla simpatia, cosa c’è di meglio?

 

Ristorante Giglio
55100 Lucca
Piazza del Giglio, 2
Tel. (+39) 0583 494058
info@ristorantegiglio.com
www.ristorantegiglio.com

Contributo fotografico degli autori. Le foto di Francesco Massagli e Daniele Grieco (in b/n) sono di Andrea Moretti. La foto in esterna è stata scattata all’una di notte.

 

FERNANDO PARDINI

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