Mi ripeto, non significa che sono il meglio che c’é, ma che sono stati semplicemente ciò che ho incontrato, la mia compagnia, il “secondo sangue della razza umana” di deamicisiana memoria, assieme agli amici, ai paesaggi, ai viaggi e agli umori. Di tutta questa parvenza di socialità sono stati il tramite, molto spesso il motore primo. Mi conforta immaginare che possano esserlo anche per chi ne leggerà.
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Calzo della Vignia 2016 – Castellari Isola del Giglio
Ho partecipato alla ricognizione di quei vini scaldandomi e raffreddandomi con ciclica frequenza, assaggiando “macerati” provenienti da nord a sud della penisola e imparando di potenzialità, barlumi e approdi. E a volte restandone deluso, soprattutto da quando ho scoperto molti di loro soggiacere al “metodo” di elaborazione, senza il conforto della compiutezza. Un approdo a metà quindi, dal momento in cui arrivava a contemplare l’incontemplabile, ossia l’omologazione.
Il piccolo grande Calzo della Vignia 2016, ansonica in purezza dall’isola del Giglio, terza vendemmia di sempre per i Castellari, è riuscito nel miracolo. Perché ci racconta dei suoi luoghi come mai avrei pensato, lì dove veracità ed eleganza si fondono per concretizzare un sorso dinamico, dritto ed equilibrato, da cui emerge a piena voce la fibra, la forza interiore, la vitalità e la progressione di un vino finalmente affrancatosi dai cliché e prepotentemente mediterraneo.
Così abbiamo un’isola, e pure un tesoro: il racconto può partire, assieme alla ricerca di almeno una di quelle 2000 bottiglie di scogliera. La parvenza di un approdo, dopo tanto mare.
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Arbois Trois Cépages 2013 – Domaine du Pélican (Marquis d’Angerville)
Il pensiero è durato un attimo, perché basta un attimo al rapimento, uno solo perché quel vino ti entri in circolo, dopodiché non ce n’è per nessuno. Una vertigine d’eleganza, un soffio “librato” che porta con sé tutto il bene del mondo, capace di lacerare quel velo sottile che divide un prodotto di fine artigianato enoico dall’opera d’arte, e passare oltre.
Danza sulle punte e sa di tutto, l’Arbois 2013 di Domaine du Pélican, ed è uno dei rossi più sublimi mai assaggiati fin qui. Non è quindi un caso se una apprezzata maison borgognotta come Marquis d’Angerville abbia inteso estendere i propri confini produttivi on the other side, dopo aver rilevato gli storici vigneti di Jacques Puffeney, vignaiolo simbolo di quelle terre.
D’altronde, e più umilmente, anch’io mi sono sentito a casa in compagnia di un vino così. E siccome sentirsi a casa è un sentimento tanto alto da sprigionare ringraziamenti, questi ultimi vanno all’amico Fabio Rizzari, fedele custode e fornitore della bottiglia galeotta.
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Barbaresco Rio Sordo 1989 – Marchesi di Barolo
Lo ammetto, riponevo poche speranze di trovarlo ancora in vita. Ma non per partito preso, solo perché questa bottiglia è approdata a casa mia dopo non so quanto vagabondare, dal momento in cui la rintracciai per caso una decina d’anni orsono sotto un capannone di eternit in cui erano state ammucchiate le mercanzie più disparate frutto di ingiunzioni fallimentari. Il prezzo super abbordabile e la forza evocativa del cru hanno fatto il resto.
Dopodiché, in mia compagnia, si è fatto un paio di traslochi e qualche estate non propriamente al fresco. Era giunto il momento di sacrificarlo, ed è stato un soul sacrifice. Intanto si è lasciato stappare senza forcipe, e già questo… Il colore poi è risultato miracolosamente ignaro del giogo temporale. La trama gustativa era di un candore e di una raffinatezza rare, confidenziale, delicata, salina. Per un’ora intera ha reagito all’aria in modo superbo. Poi i profumi hanno iniziato a virare su derive più mature e confuse, opacizzandosi un po’. Di contro, la saldezza struggente di quel sorso è rimasta. Ma ora lo so: era nata per rimanere.
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Pessac-Leognan Château Pape Clement Grand Cru Classé de Graves 1988
Prendi ad esempio Pape Clement ’88, figlio di una vendemmia considerata classica ma un po’ “rigida”, ingessata, sicuramente non eccelsa. Ora, sarà stata anche ingessata, ma ‘sto rosso qua a trent’anni o giù di lì mica fa una piega al tempo! L’integrità, la compostezza, la tonicità restano impressionanti, oggi come ieri. I terziari non sa manco cosa sono. E se il timbro dell’annata, come mi suggeriscono gli esperti, potrebbe risiedere in quella leggera vacuità riscontrabile a centro bocca, che per un attimo va a creare una intermittenza alla continuità, ben venga quel timbro, di fronte a cotanta capacità di racconto !
Il Gevrey-Chambertin 1er Cru Les Cazetiers 2002 di Bruno Clair, per dire, assaggiato fianco a fianco nel medesimo contesto, sia pur figlio di un’ottima annata in Borgogna e pur essendo di ben tredici vendemmie più giovane rispetto a “Papa Clemente”, non ha palesato egual vitalità. Piacevole eh, non c’è che dire, ma piuttosto contemplativo, pacificato, assorto, senza il cambio di passo atteso.
E’ solo un esempio, l’ennesimo, però quanto saranno buoni i Bordeaux quando invecchiano ?
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Le foto del Giglio e della vendemmia al Calzo sono di Claudio Mollo
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