Borgogna grande soirée a Merano: metti una sera a cena, fra vignerons, cru prestigiosi e chef stellati

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Parata di stelle, non c’è che dire, per un evento enogastronomico davvero speciale, concepito a corollario del celebre Merano Wine Festival e celebrato nelle sale dell’Hotel Quellenhof di San Martino in Val Passiria la sera dell’11 novembre scorso. Tema e protagonisti d’altronde non lasciavano spazio a fraintendimenti: “Grand tasting de Bourgogne“, come a dire circa venticinque produttori (meglio, vignerons) francesi ad officiare con i loro vini nell’ambito di una cena particolare onorata dall’estro e dalla sensibilità di quattro chef “pluristellati” di casa nostra.

Tutto questo grazie a Gourmet’s International in qualità di ente organizzatore del Festival (era presente il deus ex-machina Helmuth Köcher), che è riuscito nell’intento lodevole di portare in terra altoatesina un’ampia rappresentanza borgognona della Côte d’Or (ma non solo), e grazie, per quanto ci riguarda, alle attenzioni dimostrateci da Cuzziol, attivissima realtà imprenditoriale veneta che cura l’importazione di vini di pregio, con un occhio di riguardo proprio verso la Borgogna, e nel cui listino compaiono molte delle aziende presenti quella sera. Fra gli ospiti illustri non possiamo non ricordare Enzo Vizzari (foto accanto), direttore del comparto guide de L’espresso, che ha simpaticamente commentato (in un francese sicuro e spigliato) le fasi salienti della serata, nonché Fabio Rizzari ed Ernesto Gentili, curatori della Guida dei Vini de L’espresso, fan appassionati della/di Borgogna e graditissimi compagni di tavola.

E’ stato così, non senza emozione, che io e il mio “complice” Vincenzo Ramponi ci siam visti scorrere bellamente davanti agli occhi personaggi celebri, da Claude Dugat a Jean-Charles Le Bault de La Morinière (Bonneau du Martray), da Hubert de Villaine a Laurent Lignier, da Jean Nicolas Méo (Méo Camuzet) a Pascal Lachaux (Domaine Arnoux). Altri ne avremmo conosciuti quella sera. Come se non bastasse, forse per corrispondere la maestà del parterre, al luccichìo enologico si sono unite le proposte culinarie di 4 chef “pluristellati” italiani (peraltro pure al vertice delle Guide gastronomiche di casa nostra), ossia Giancarlo Perbellini dell’omonimo ristorante di Isola Rizza (VR), Carlo Cracco del ristorante omonimo di Milano, Massimo Bottura de La Francescana di Modena e, unico chef a giocare in casa, Norbert Niederkofler del Ristorante Rosa Alpina dell’Hotel St.Hubertus di San Cassiano.

Si aprono le danze, in piedi, con un aperitivo allietato da una bollicina nostrale (Franciacorta Brut Cavalleri 2001, unica presenza italiana assieme a quella di Marco Parusso, che ha offerto ai tavoli il suo Barolo Bussia 2001) e da quattro creazioni culinarie, ciascuna delle quali concepita e realizzata da ognuno dei 4 chef sopra citati: su tutte, un plauso vada alla “compressione di una pasta e fagioli” di Massimo Bottura, per l’originalità della presentazione certo (il tutto effettivamente compresso, in strati multicolore, in un bicchiere cilindrico e stretto) ma soprattutto per la sequenza armonica dei sapori, che spaziavano dal contributo intenso del rosmarino (proprio “un’aria”) alla classica veracità (di matrice “casalinga” direi) di una gustosa pasta e fagioli (cotiche comprese), che aveva il pregio di offrire sapori cangianti e ben accordati ed un fondo cremoso di tendenza dolce/non dolce a ricordare quasi un fegato grasso. Intrigante ed elegante pure la Mousse di cavolfiore servita nel guscio d’uovo con tartufo nero di Norcia” di Norbert Niederkofler, per l’intento meritevole di sfruttare materie prime stagionali e per la sfumatura nei sapori, mai arroganti, che riusciva a trasmettere all’assaggio. Qui la sensualità e l’intensità del tartufo (giustamente in rilievo) non ha forse trovato un degno contraltare nella mousse di cavolfiore, dal gusto non propriamente caratterizzato, ma è questione di lana caprina. Meno emozionante del previsto la “Spugna di tuorlo al forno con nervetti di vitello” di Carlo Cracco, perché alla vitalità dei nervetti, a cui non facevan difetto grinta e sapore, rispondeva la vacuità di una elaborazione fin troppo tecnologica (cerebrale?) del tuorlo, alla cui tattilità spugnosa avremmo gradito corrisposta una maggiore incisività gustativa; per finire, convincente e ben contrastato mi è apparso lo “zabaglione ghiacciato e caviale affumicato” di Giancarlo Perbellini, eccellente aperitivo, corroborante e stuzzicante insieme.

Una volta a tavola, l’entrée è stata affidata allo chef altoatesino Norbert Niederkofler, con la sua “Insalata di fagioli pigna con polpo brasato, pomodoro datterino glassato e testina di vitello impanata”, a mio modesto avviso il miglior piatto della serata quanto ad armonia ed eleganza, capace di suggerire sensazioni sapide e in agrodolce di grande suggestione, perdipiù nobilmente speziato, con intrigante contrasto croccante/morbido (la panatura della testina e la perfetta cottura del polpo) e il contributo di materie prime eccellenti (fagioli e olio in primis). Dopodiché sono arrivati i saporiti “Ravioli di baccalà alla Vicentina” di Carlo Cracco, dove il baccalà alla Vicentina (mi è parso di cogliere netta la presenza del filetto di acciuga) costituiva il ripieno dei piccolissimi ravioli (una sorta di confetti sferoidali), conditi con una balsamica, freschissima salsa di prezzemolo tirata a velluto: piatto di bel grip, vivace, sapido, scoppiettante al gusto, che stando agli applausi dei transalpini a fine cena ha lasciato il segno.

Va invece sul sicuro Giancarlo Perbellini, a cui è stata affidata la portata di carne: sia come tema, sia come trattamento, sia come presentazione, questa pietanza non si è lasciata sfuggire l’ammiccamento (forse l’omaggio) all’onnipresente boeuf au vin rouge della tradizione borgognona, qui declinato in un “Guanciale di vitello brasato su puré di patate e porri fritti“. Così, se da un lato l’elaborazione non ha ispirato di certo il “taglio” di una cucina autoriale quanto semmai la sana concretezza della cucina popolare, dall’altro la succulenza, la straordinaria morbidezza tattile (cottura di circa 9 ore della carne, puré tirato come una mousse) e la terragna evidenza -tutta sapore e niente fronzoli- di questo piatto hanno offerto un rifugio confortevole al gourmet, ben al riparo dalle stravaganze e dalle ostentazioni oggi tanto in voga.

Questa misura non sembra aver contagiato Massimo Bottura, se solo stiamo al suo “folle” dessert, tanto altisonante a leggerne il nome sul menù quanto fuorviante e se vuoi contraddittorio quando lo assaggi: ” Astrazione di Parmigiano Reggiano con amarene confit e gocce di aceto balsamico tradizionale di Modena con distillato di amarena” ha voluto evocare i grandi prodotti della terra emiliana, ma il risultato organolettico non ha sortito la meraviglia attesa: oltremodo “formaggioso”, non ha offerto forse quella spazialità di sapore (poca dolcezza per esempio) che da materie del genere ci si aspetta sempre.

Alla sostanziale qualità e gradevolezza del desinare hanno risposto da par loro i vini di Borgogna, un caleidoscopio fitto di sensazioni buone contornate dai dialoghi amichevoli e istruttivi con i produttori, celebri e meno celebri. Per aprire in bianco, ci è parso realmente ispirato ed accattivante il Pouilly Fuissé Racines 2005 di Roger Lassarat, in cui è stato piacevole coglierne la vocazione “gastronomica” e l’ottimo equilibrio delle parti. Più ambiziosi, ma non altrettanto efficaci nel trasmettere il loro lato più “colloquiale”, il Corton Charlemagne Grand Cru 2001 di Domaine du Pavillon e il Ladoix Serrigny 1er Cru Les Grèchons 2005 di Domaine Chevalier. Il primo è apparso flemmatico e “volumico”, come cru richiede, ma l’impianto austero che lo caratterizzava non era altrettanto corroborato dal ritmo; mentre il secondo ha messo in mostra la sua aitante gioventù, anche se la spinta alcolica non ci è sembrata secondaria.

Ecco poi la grande carrellata in rosso. Intanto, il Nuits St George 1er cru Aux Thorey 2005 di David Duband (compagno di tavola) mostrava una carnosità di frutto e una capacità di seduzione ineludibili, con dalla sua una cura del dettaglio invidiabile, mentre il Savigny Les Beaune 1er cru Aux Guettes 2003 di Simon Bize (altro simpatico compagno di tavola, un vigneron di cui si mormora negli ambienti che “sanno” di vino) non te la mandava a dire la sua anima artigianale: ridotto, verace, pieno e caloroso, è apparso indietro nello sviluppo ma capace di allungo e profondità degni di nota, per un gusto schietto che forse non si confà agli amanti della pulizia, della precisione e della finezza.

Da Eric de Suremain invece, altro compagno di tavolata – un volto che più borgognone non si può, con tanto di bei baffoni fluenti à la campagnard – è giunta la vera sorpresa della serata: il suo Monthelie 1er cru Sur La Velle 1985, le cui uve provengono da vigne messe a dimora nel 1920, conserva tutto il fascino e le desinenze amorose del vino d’autore, alla cui evoluzione il tempo non ha inficiato, ciò che si dispiega oggi nei profumi di tartufo, cocco, menta, fiori appassiti e terra bagnata e in un sviluppo gustativo di brillante e incontaminata freschezza, a decretarne la purezza e l’ardore. Mi ha fatto particolarmente piacere poi -diciamo la verità, è stata una goduria!- vedere diversi celebrati vignerons approdare al nostro tavolo per offrire agli astanti un loro vino. Fra questi, Jean Nicolas Méo (Méo – Camuzet) ci ha offerto un ancor giovane (parole sue) Vosne-Romanée 1er cru Aux Cros Parantoux 1999, conosciuto quanto discusso cru che ha avuto la sua consacrazione grazie ad alcune emblematiche vinificazioni del compianto Henry Jayer, che nella fattispecie si è mostrato tanto carnoso ed accattivante al naso quanto oltremodo restio nel profilarsi e distendersi al palato, palato non esente da reminiscenze boisé di ispirazione più moderna.

Poi è intervenuta la famiglia Arnoux che ci ha rimesso in carreggiata con Echezeaux Grand Cru 2000 (da magnum), un vino incredibile per suggestione aromatica, complessità, freschezza e carattere. In lui la terra respira, letteralmente. Il finale è un crescendo rossiniano, ci direbbero i musicologi: Domaine Chevalier, qui rappresentato dalla figura di Claude, dimostra tutta la propria sensibilità di vinificatore in rosso con un Corton Rognet Grand Cru 2000 di altissimo pregio. Ammirevole per tonicità, sensualità, pienezza e gioventù, è vino di toccante forza espressiva. Per finire, ecco avvicinarsi il cordiale, pacifico vigneron Claude Dugat, di cui ebbi a scrivere qualche tempo fa e al quale nel corso della serata ho donato una foto scattata nel 2004 a lui e alla sua cavalla Jonquille mentre aravano un clos davanti alla chiesa di Gevrey-Chambertin. La bottiglia che ha in mano porta una etichetta old fashioned.

Da lì a poco avremmo invece scoperto la “futuribilità” del suo contenuto: Charmes Chambertin Grand Cru 1994 non ha rivali. E’ uno di quei vini per i quali le categorie e le classificazioni sono pura aleatorietà. E’ una esperienza emozionante con una delle migliori bottiglie di sempre: vivo, vitale, finissimo, lunghissimo, balsamico, carezzevole, setoso, “cangiante”, intrigante, dinamico, è essenza pura e incanto della terra, capace di ravvivare ogni interesse sopito e reclamare tutto il bello che c’è nella vita. E’ una di quelle “cose” per le quali è valsa la pena aspettare.

Sul ritorno, come frastornati dalle suggestioni “millanta” (permettetemi una citazione veronelliana) di una soirée animata e piena di stimoli, è stato difficile fermare i pensieri su una soltanto di quelle sollecitazioni sensoriali, perché nel frattempo già un’altra stava prendendo il sopravvento e reclamava attenzioni. Un bombardamento dei sensi non si liquida così, d’amblé, con una constatazione, un giudizio sommario e un puntoaccapo. Forse per questo motivo il mio pezzullo di oggi non potrà rendere quello che avrebbe dovuto, così come non potrà mettere la parola fine ad un turbinio continuo di ricordi che non mollano la presa. Resta il fatto, inconfutabile, di essere stati testimoni di una serata ad alto contenuto emozionale, nella quale cibi, vini, persone, estri e circostanze, per una volta, ci è parso abbiano trovato una accordatura mirabile. Non è cosa di tutti i giorni, e noi dobbiamo dargliene (e prenderne) atto.

Le foto, in ordine di apparizione: parata di bottiglie; Enzo Vizzari a chiacchiera; Claude Dugat e signora; compressione di una pasta e fagioli di Bottura; l’insalata di Niederkofler; il guanciale di Cracco; il dessert di Bottura; gli chef di una sera; a tavola ( da sx a dx: Maurizio Fava, Ernesto Gentili, Simon Bize, Fabio Rizzari; di spalle Laurent della maison Duband); a tavola (a sx Fabio Rizzari, a dx Eric de Suremain di Chateau de Monthelie); magnum di Echezeaux; Charmes Chambertin 1994 di Claude Dugat; l’acquabuonaiolo Vincenzo Ramponi.

FERNANDO PARDINI

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