La bellezza e lo sfacelo. Riflessioni sulle Calabrie/1

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Ogni volta che scendo in Calabria – anzi nelle Calabrie, ché la regione è qui plurale per motivi storici e territoriali (è infatti esistita durante il periodo napoleonico una Calabria Citra, ovvero settentrionale con capoluogo Cosenza, e una Ultra centro-meridionale che passava da Catanzaro all’odierna Vibo Valentia; e successivamente una borbonica, datata 1816, in tre province: Citeriore con capoluogo Cosenza, Ulteriore Prima con Reggio Calabria e Ulteriore Seconda con Catanzaro; più in generale si distinguono una Calabria Ulteriore, ovvero greca, e una Citeriore, ovvero latina) – mi prudono i polpastrelli della dita, specie dopo un percorso articolato come quello di quest’estate (Pollino, Reggio Calabria e provincia, costa crotonese).

Pochi altri luoghi italiani muovono sentimenti così contrastanti, così potenti, così feroci, dove ammirazione e sdegno, entusiasmo e mortificazione si aggrovigliano e mescolano senza tregua e senza speranza. Non c’è luogo della regione che non contenga un paesaggio mozzafiato, borghi sconosciuti e bellissimi, specialità gastronomiche uniche. Non c’è luogo della regione, soprattutto se costiero, dove bellezza e sfacelo non si contaminino con effetti deformanti, pittoreschi, grotteschi.

Chi realmente conosce la Calabria al di là dello stereotipo che la vuole solo arretrata, ignorante, folcloristica?

Già a metà dell’Ottocento, Edward Lear – scrittore, viaggiatore, disegnatore vittoriano, autore dell’indimenticato Il libro del nonsense (da noi nella bella edizione Einaudi I Millenni, 1970) – nel suo Diario di un viaggio a piedi. Reggio Calabria e la sua Provincia, effettuato da luglio a settembre del 1847 e interrotto dai moti rivoluzionari del Regno di Napoli, scriveva: «Il nome Calabria in se stesso ha non poco di romantico. Nessun’altra provincia del Regno di Napoli stimola tale interesse o ispira tanto ancor prima di avervi messo piede. Eppure questa terra di grande interesse pittorico e poetico ha avuto solo pochi visitatori; meno ancora hanno pubblicato le loro esperienze».

Appartata e abbandonata, laterale e irriducibile, la Calabria – che ancora oggi per molti italiani, specie del nord, che non la conoscono, rappresenta il punto più basso dello Stivale italiano (non per ragioni puramente geografiche, e non senza ragioni) – è sì il simbolo dell’abbandono istituzionale e del malaffare politico e privato («Sarebbe inesatto pensare che lo Stato italiano non abbia mai speso nulla in Calabria. Soltanto, spese male, in lavori parziali e inorganici, spesso paralizzati da interessi avversi, spesso suggeriti non tanto da una utilità vera, quanto dalle immediate preoccupazioni elettorali e dallo zelo utilitaristico di deputati ansiosi di accontentare una clientela», «Le riforme furono ostacolate e vanificate dal blocco di potenti interessi locali. Si chiamassero conservatori, o liberali, o socialisti, divisi spesso nelle idee, ma uniti dalla spinta sorda e spesso inconsapevole dell’interesse, quelli che comandavano erano i protettori naturali dell’immobilismo; ruotavano nella loro orbita il magistrato e il legale, il sindaco e il banchiera, il giornalista e l’impiegato», scriveva Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia degli anni Cinquanta, e le cose non sono cambiate di molto), ma è anche unica per diversi aspetti.

La sua posizione, innanzitutto, sulla punta dello Stivale. La sua forma allungata, e lunga da percorrere, quasi affusolata, che le permette di avere due coste, appaiate e speculari nella lunghezza ma diverse nei caratteri, che abbracciano due mari: lo Ionio sulla sponda di levante, il Tirreno su quella di ponente. Ambedue visibili nelle giornate più terse da Tiriolo, borgo della Sila situato a 700 metri di altitudine, hanno colori cangianti, dall’acquamarina al cobalto, e profondi, che non hanno nulla da invidiare alle cartoline della Grecia o dei Caraibi.

Pentedattilo

Molti conoscono il mare di Calabria, anche se magari non l’hanno mai visto (ed è un mare che si alterna tra spiagge affollate e calette solitarie, tra bagni con gli ombrelloni e natura selvaggia), ma il 91% della regione è costituito da rilievi collinari e montani. Colline dove si coltiva l’ulivo, che scende anche a ritocchino sui versanti, la vite, i seminativi, mentre gli agrumi sono più spesso sul piano. La montagna, poco distante dal mare, domina le Calabrie con le catene del Pollino (provincia di Cosenza), della Sila (provincia di Cosenza, Crotone, Catanzaro) e d’Aspromonte (provincia di Reggio Calabria), abbinate a ben tre parchi nazionali, primato italiano.

Poi foreste, laghi, gole. Si pratica lo sci (alpino e di fondo), la vela, l’immersione, il torrentismo, il rafting. Le Calabrie sono il regno della diversità. Ancora Piovene: «È certo la più strana tra le nostre regioni. Nelle sue vaste plaghe montane talvolta non sembra d’essere nel Mezzogiorno, ma in Svizzera, nell’Alto Adige, nei paesi scandinavi. Da questo Nord immaginario si salta a foreste d’olivi, lungo coste del classico tipo mediterraneo. Vi si incuneano canyons che ricordano gli Stati Uniti, tratti di deserto africano e angoli in cui gli edifici conservano qualche ricordo di Bisanzio. Si direbbe che qui siano franati insieme i detriti di diversi mondi; che una divinità arbitraria, dopo aver creato i continenti e le stagioni, si sia divertita a romperli per mescolarne i lucenti frantumi».

Le Calabrie disorientano, ammaliano, straniscono. Non rientrano in un disegno unitario, non si conciliano con l’idea di una forma compiuta, di una bellezza intatta. Qui tutto è frammentario, disorganico, promiscuo. Lo è l’edilizia, lo è la viabilità, lo è la campagna. Tutto è un po’ lasciato a se stesso, la natura incombe selvaggia e decadente. Si sprigiona il senso di un assoluto romantico, potente e incontrollabile.

Sei nel Pollino, nella costellazione di borghi costruiti su alture, nel proscenio di una natura spesso incontaminata, con montagne dolci e severe, l’aria che rinfresca quando il sole d’estate picchia duro, la maestosità dei pini loricati a 2500 metri raggiungibili solo dopo ore di cammino, il rafting lungo il torrente Lao, le gole vertiginose del Raganello; ti fermi nel centro del paese arbëreshë (albanese) di Civita mangiando lo squisito capretto alla civitese, cottura lunghissima da antica ricetta locale (da accompagnare con il pane di Cerchiara, da generazioni impastato e cotto di mani femminili: Cerchiara è un borgo costruito su un costone ai piedi del monte Sillaro e situato in posizione panoramica sulla piana di Sibari); scendi lungo lo strapiombo della parete rocciosa del Timpa del Demanio (866 metri), per vedere il ponte del Diavolo, a tale profondità che c’è addirittura un servizio di jeep per farti risalire dal canyon; e pensi a quanti altri borghi, villaggi, paesi sono disseminati lungo le Calabrie, quei piccoli comuni che rappresentano il 50% del territorio italiano e che in un articolo su «la Repubblica» del 12 agosto 2019 Carlo Petrini ha ribadito essere «un inestimabile patrimonio di biodiversità culturale, agricola, gastronomica, naturalistica e architettonica».

Pensi alle patate, ai funghi e al caciocavallo della Sila, alla sardella di Crucoli, alla liquirizia di Rossano, alla ricotta di Crotone, al limone sfusato di Favazzina, al bergamotto della costa reggina, alla pesca merendella di Catanzaro, al cedro di Cetraro, alla cipolla di Tropea, al tartufo (gelato) di Pizzo Calabro…

Pensi al lascito delle antiche civiltà che hanno scritto la storia della regione (greca, bizantina, romana, normanna, sveva, aragonese, angioina, borbonica), visitando l’area archeologica di Sibari con i resti greci e romani, la colonna del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna, la chiesa bizantina di San Marco Evangelista a Rossano Calabro, il maestoso castello federiciano di Roseto Capo Spùlico, lo spettacolare castello aragonese in mezzo al mare di Le Castella, il possente castello angioino di Santa Severina

Poi, scendendo lungo la Statale 106 della costa ionica – dove alcuni cartelli esprimono speranza verso l’Altissimo («Gesù confido in te») e altri (almeno due) ti avvisano per tempo della posizione degli autovelox, fatto mai visto lungo le altre strade d’Italia –, non puoi fare a meno di inorridire di fronte ai continui abusi edilizi, allo scempio urbano, al disastro paesaggistico, alle brutture delle palazzine in cemento armato, ai capannoni abbandonati, alle torri petrolifere che svettano come minareti sulle carcasse arrugginite di relitti industriali, ai cadaveri di fabbriche derelitte, alla permanenza del “non finito” calabrese. I piani regolatori delle città sono incomprensibili, la viabilità è incomprensibile, l’assenza di trasporti regolari (il treno è spesso una littorina a scartamento ridotto) e di adeguate strutture ricettive è incomprensibile, mentre intorno fiorisce una natura aspra e lussureggiante, un mare che rapisce la mente, saporiti forti che conquistano il palato.

Continua…..

Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

1 COMMENT

  1. Caro Zanichelli,
    pur condividendo il dispiacere e lo sdegno voglio solo puntualizzare che lo scartamento ridotto si riferisce alla distanza tra le rotaie non alla qualità del servizio ferroviario. In Calabria o nelle Calabrie (lo so, suona bene e fa cultura ma non ha senso oggi, come dire il Veneto o Le Venezie, gli Abruzzi o l’ Abruzzo…chi se ne frega, il riferimento storico è ormai perso) tutte le linee ferroviarie sono adeguate allo standard generale italiano. Solo in Puglia (oppure preferisci Le Puglie?) credo che Le Ferrovie Calabro Lucane abbiano uno scartamento diverso ed effettivamente ridotto. Tra l’altro credo uguale a quello Spagnolo, volutamente diverso in modo da rendere più difficile una invasione gallica .
    L’accezione negativa per lo scartamento ridotto deriva solamente dal fatto che una volta affermatosi lo standard più ampio, le zone marginali, ancora servite dallo scartamento inferiore furono ritenute non degne di adeguamento, inferiori, appunto o ridotte.
    Il che naturalmente non è vero però effettivamente suona bene tanto da averti indotto a definire scartamento ridotto una minore qualità del servizio.
    E le Littorine? Esistono ancora?
    Se si, ci sarà qualcuno disposto a spendere una parola in loro difesa?
    Ci sarà qualcuno non più terrorizzato di essere chiamato fascista ed immediatamente invitato ad autocritica, disposto a dire apertamente che la Littorina, al di la del nome che pur non è dei peggiori, è stato un grande e pregevole progetto industriale e di design?
    Lo so, non c’entra con Le Calabrie, lo so…però dove potrò entrare in un veicolo degno di stare in un museo di arte applicata, se non in Calabria?
    Molto ci sarebbe da dire sul “non finito” calabrese ( ma non esiste anche in Basilicata,Campania, Puglia, Sicilia, e in parte in Sardegna?). A me piace pensare che siano “Incompiute” o “Pietà Rondanini” , opere in attesa di epifanie risolutive, rivelazioni che porteranno al compimento, sogni da realizzare quando i tempi saranno maturi…
    Lo so, la realtà è molto più prosaica, i soldi dell’emigrato che non arrivano più, le necessità giornaliere che sopravanzano il progetto geometrile, la pura e calcolata speculazione edilizia…
    Eppure ogni tanto mi attira pensare che questa amata, irritante, bellissima Calabria (o Calabrie?) abbia in se complessità non riconducibili a volgari tornaconti di poveri ex-cafoni o di miserabili politicanti.
    E mi consola, ma come l’amaro del mattino dopo, pensare che quando vado in Grecia vedo le stesse cose.
    Sarà il parallelo?

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