L’Erta di Radda, in Chianti Classico. La costruzione di un amore

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“La costruzione di un amore spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore, se ce ne rimane” (I. Fossati)

Dell’Erta di Radda mi piace tutto, mi piace la storia e mi piacciono le persone. A certe storie poi ti ci affezioni d’istinto. E se ogni ritorno alla terra è circostanza lietissima, lo è ancor di più se ad impegnarsi nell’agone è un giovane, uno di quelli senza “compagnie cantanti” però, senza il vanto di casate o dinastie alle spalle né la fortuna di possedere latifondi, un giovane assistito soltanto dal fatto di essere nato e cresciuto in quella terra, lì dove ha deciso di restare.

Diego Finocchi, da Radda in Chianti, all’epoca dei fatti (2006) era un ventiquattrenne alla soglia della laurea in enologia e viticoltura che ha avuto di fronte a sé l’occasione che avrebbe potuto cambiargli la vita. No, non ha vinto al totocalcio, quindi nessuna scorciatoia. L’occasione, o per meglio dire la scommessa, era costituita dalla possibilità di acquistare cinque ettari di vigna al Casino dell’Erta, altrimenti conosciuto come Erta di Radda, nei pressi di Caparsa. Un luogo appartato di suoli magri a galestro e alberese (con presenza di sabbie) posto ad altitudini significative (430 metri slm) e con esposizioni fresche ad intercettare il nord. Ovviamente ciò avrebbe comportato un indebitamento ad libitum, ma probabilmente le condizioni imposte dal proprietario del vigneto non furono condizioni capestro.

E fu così che, da studente, in un attimo si è ritrovato catapultato nel mondo produttivo: imprenditore agricolo, nientepopodimenoche. La vecchia vigna promiscua degli anni Sessanta piantata a sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia necessitava invero di provvidenziali reimpianti, e così è stato, a cominciare dal 2006. Il frutto delle prime vinificazioni è stato venduto ad altre cantine e poi, dal 2009, ecco il primo Chianti Classico della casa, un’etichetta che negli anni sarebbe stata affiancata dal Chianti Classico Riserva, da un bianco e da un curioso “vinaggio” costituito da uve a bacca rossa e bacca bianca mischiate assieme, rivisitazione aggiornata di un vino alla vecchia maniera con tanto di governo all’uso di Toscana. Ah, dimenticavo, il nome assegnato alla nuova realtà agricola è semplicemente una dichiarazione di appartenenza: L’Erta di Radda.

A dire il vero il patrimonio vitato oggi può contare su due ulteriori appezzamenti: un ettaro a La Villa, alle porte di Radda, i cui suoli di matrice calcarea accolgono striature più argillose, e poi il piccolo vigneto di famiglia al Corno, lì dove Diego vive e dove i panorami bastano e avanzano alla meraviglia.

Dal 2006 ad oggi di strada ne è stata fatta. Non era facile, non è mai facile. La determinazione, il coraggio e un sano pragmatismo di stampo contadino la fanno da padroni. In Diego poi c’è una quieta pacatezza, quantomeno esteriore, che ti fa pensare ad un vignaiolo coscienzioso, dialettico e di sani principi, attitudine che non poteva che tramutarsi in una parabola stilistico/espressiva costellata di vini autentici e rigorosi, assistiti da una viticoltura pulita e da un’enologia poco interventista, che fin dalle prime apparizioni hanno saputo attirare le attenzioni dei bevitori più esigenti, quelli maggiormente affezionati alle ragioni del terroir.

Il respiro acquisito da questi vini, grazie anche all’impiego esclusivo di vitigni autoctoni, strizza l’occhio alla classicità – una classicità di forma e di sostanza – e a una dominante timbrica portata per le sfumature di sapore e la freschezza gustativa. Governati da un piglio caratteriale di artigiana concretezza che chiama sincerità, rispetto e trasparenza espressiva, appaiono oggi più nitidi e focalizzati rispetto agli esordi.

Figli legittimi di Radda, insomma, come dimostrano anche le ultime annate assaggiate (alcune in anteprima assoluta), sia pur interessate da vendemmie non facili come la 2017. Sono gli ultimi conseguimenti di una storia che cresce, passo dopo passo, con implacabile linearità: una storia che ci voleva, bella dentro e bella fuori.

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I VINI DI UN GIORNO

Bianco dell’Erta 2019 ( trebbiano e malvasia)

Nitido, dritto e gessoso, di bella trazione acida ed aromaticità discreta (nel senso della discrezione), con il suo andamento finto-semplice ti invoglia alla beva, mentre tu ben volentieri registri l’assoluta mancanza di moine e una schiettezza che rinfranca.

Due & Due 2017 ( da uve sangiovese, canaiolo, trebbiano, malvasia  fermentate assieme; affinamento in acciaio e cemento)

Vinoso ma non troppo, con qualche rusticità e una chiosa comunque dolce e modulata, è un Due&Due di rigogliosa -ma non ridondante- bevibilità, che a suo modo risente dell’annata siccitosa.

Chianti Classico 2018 (campione da botte – sangiovese; canaiolo)

Sciolto, elegante, articolato, con la coda salina in evidenza, tratteggia brillantemente un carattere raddese affidandosi come si conviene ai sottotraccia, e a una dinamica che si nutre di levità.

Chianti Classico 2017 (sangiovese; canaiolo)

Un pizzico di frutto in esubero, forme un po’ tondeggianti, trame più larghe che tese, eppure non si fa mancare una fragranza concreta e un buon grado di contrasto.

Chianti Classico Riserva 2017 ( campione da botte, botte grande, singola vigna all’Erta di Radda ripiantata nel 2009 a sangiovese, da suoli ad alto contenuto di ferro)

Ricco con garbo, allo spessore gustativo, al rigoglio di frutto e alle rotondità avute in dote dal millesimo ci affianca una propensione più dinamica e sfumata. Alla fine vince il sale.

Chianti Classico Riserva 2016 (sangiovese)

Sanguigno, ematico, ferroso, con sentori di ciliegia su fondo provvidenzialmente floreale, è vino tenace, compatto, ancora da sdilinquirsi per via del gioco serrato fra tannini e acidità. L’energia sottesa, il tono e la grinta stanno a garanzia per il futuro che viene.

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L’Erta di Radda – Località Il Corno, Radda in Chianti (SI) – www.ertadiradda.it

FERNANDO PARDINI

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