La Pasimata della Fidalma

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E fu sera e fu mattina…
Parlare della Pasimata fa venire a mente certi brani della Bibbia, in cui il tempo sembra scorrere con una lentezza impressionante. Come la Genesi: “E fu sera e fu mattina… primo giorno… e fu sera e fu mattina… secondo giorno…” O come negli episodi della Pasqua, in cui si arriva alla scoperta del sepolcro vuoto all’alba del terzo giorno, dopo giorni e notti di silenzio angosciato.

Oggi il tempo è qualcosa che sfugge di mano. Anche nel cucinare si cerca di fare di tutto per ridurre il tempo, per manipolarlo, restringerlo al minimo indispensabile. Eppure è un elemento fondamentale. Certe ricette sono una vera e propria sfida al nostro “tempo di corsa”: hanno bisogno di tempi lunghissimi, e non hanno nessuna fretta di esser fatte. Sembrano quasi una terapia per recuperare il senso del tempo. Come la Pasimata pasquale.

Chi preparava la Pasimata, negli anni in cui era l’unico dolce per Pasqua, calcolava il tempo per iniziare l’impasto nel momento giusto per arrivare a sfornare al Sabato Santo.

La Pasimata è un pane dolce tradizionale dell’area lucchese-garfagnina-versiliese. L’origine del nome è incertissima, e di sicuro ogni massaia ne conservava gelosamente una propria variante di preparazione, basata a volte sugli ingredienti, a volte sul numero di impasti, a volte sui giorni di lievitazione.

In Rete se ne parla un po’, ma non è che ci siano molte ricette ben definite; sui libri, ce n’è una versione interessante sul libro di Emiliana Lucchesi, Cucina di Lucchesia e Versilia (Franco Muzzio Editore). Io ho provato a chiedere a mia madre se aveva una sua ricetta per la pasimata. “Ti do quella della Fidalma, vedrai che ti viene bene.” Il nome della Fidalma da noi mette d’accordo tutti: è una di quelle donne che hanno le mani d’oro, e in cucina non la batte nessuno. E quindi l’ho trascritta e adattata alle mie dosi, sapendo che una volta se ne faceva una gran quantità, di solito il necessario per fare “un’infornata” (ossia quante teglie riuscivano a entrare in un forno a legna).

La ricetta che trascrivo è assai arcaica, lo testimonia la scarsità di zucchero e la mancanza di burro, sostituito con il più abbordabile (per la zona) olio d’oliva. È un dolce-non dolce, che ricorda per alcuni aspetti il buccellato lucchese.

Come per il panettone, mi sono subito sentito con la Maria Pelletti, che è stata entusiasta di provare anche lei la pasimata; insieme abbiamo rivisto la ricetta, per cercare di riportarla agli anni pre-boom economico, perché ci eravamo accorti che nel tempo e nei vari passaggi la ricetta aveva “caricato a bordo” alcuni elementi estranei. Come per esempio il lievito di birra per lo starter della fermentazione; sicuramente le massaie di 50 anni fa usavano il lievito madre. E poi i canditi da aggiungere in fondo; molto probabilmente erano stati inseriti dopo che il panettone era diventato il dolce per eccellenza; ma in aree come la Garfagnana e la Lucchesia è improbabile che si usassero nelle cucine della gente normale.

“Non ti credere che sia un dolce come siamo abituati a mangiarne oggi”, mi ha avvertito la Maria. “Siamo abituati male, a robe troppo dolci. La pasimata era dolce per chi la mangiava allora, abituato a vedere lo zucchero di lontano.”

Il bello della pasimata infatti è nei profumi, che vengono fuori solo con la lentezza della lievitazione paziente. Lì c’è lo scarto con tutti gli altri dolci di oggi. Provare per credere: il profumo raffinatissimo di una lievitazione naturale lenta è qualcosa di straordinario. E anche la digeribilità della pasta, che non stucca e non appesantisce.

“Sai com’è che si faceva fare l’ultima lievitazione una volta?” La Maria si è appassionata e mi incalza con i ricordi: “Il giorno della cottura, si facevano svegliare presto le persone, e nel letto ancora caldo si mettevano le pasimate a lievitare. Non credere che sia uno di quei dolci d’oggi morbidissimo e pieno d’occhiellature; la pasimata aveva il suo peso e la sua consistenza, non era mica come una colomba da supermercato…” E infatti doveva durare per un bel po’, all’aria aperta, avvolta in un panno di lino. Magari col passare dei giorni si induriva, ma quel sapore… Bisognerebbe andare a chiederlo agli anziani. Staccarli per un attimo dai loro acciacchi, staccarli dalla televisione, staccarli dai sordidi telegiornali che li ghermiscono ammiccando, e chieder loro “Ma com’era la pasimata ai tuoi tempi, di che sapevano i bocconi inzuppati nel vino a Pasqua, e com’era la tua bella quando andavate a pasquetta a far la scampagnata…”

È un dolce per riflettere sul tempo.

E fu sera e fu mattina…

PASIMATA DELLA FIDALMA

Primo giorno

Iniziare la sera rinfrescando il lievito madre, fino a ottenerne circa 180 g. da usare nell’impasto successivo

Secondo giorno

Al mattino aggiungere al lievito :

1 uovo

1 cucchiaio d’olio d’oliva extravergine non troppo robusto

1 cucchiaio di zucchero

farina 00 quanto basta per fare un impasto di media consistenza

a fine primo impasto, il peso si aggirerà intorno ai 350 g.

La sera dello stesso giorno mettere nell’impasto

2 uova

2 cucchiai d’olio d’oliva

2 cucchiai di zucchero

farina 00 per rendere l’impasto di media consistenza

Terzo giorno

la sera del terzo giorno mettere nell’impasto:

3 uova

3 cucchiai d’olio

3 cucchiai di zucchero

farina come al solito

infine, aggiungere un po’ di uvetta messa a rinvenire in acqua tiepida e poi asciugata

dopo questa fase l’impasto peserà all’incirca 1250 g.

Quarto giorno

Il mattino, a seconda del proprio gusto, mettere una buona quantità di uvetta (circa 200 g.) fatta rinvenire e poi asciutta come detto

pinoli (80 g.)

alcune semi d’anice (circa 10 g.)

un pizzico di sale

Suddividere l’impasto in pezzature da 750-1000 g. a seconda della grandezza delle teglie, imburrare le teglie, e mettere a lievitare al caldo (in alternativa alle teglie si possono usare i pirottini di carta).

Alla sera, scaldare il forno a 180°, infornare e far cuocere per 45-60 minuti.

Intanto a Pietrasanta …

La fascina di olivo scalda il forno
La fascina di olivo scalda il forno
Le torte di riso sono pronte nelle teglie
Le torte di riso sono pronte nelle teglie
Nel forno
Nel forno
Le pasimate sono cotte
Le pasimate sono cotte
A testa in giù, per raffreddare
A testa in giù, per raffreddare
Pasimate
Pasimate
L'assaggio della pasimata
L'assaggio
Le torte di riso putte
Le torte di riso putte (ovvero salate, a base di spezie e formaggio)
Torta di riso dolce, torta putta e pasimate sullo sfondo
Torta di riso dolce, torta putta e pasimate sullo sfondo
Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

5 COMMENTS

  1. PAOLO, SE IN CUCINA TI DAI DA FARE COME SCRIVI IL DOLCE SICURAMENTE SARÀ VENUTO BUONISSIMO. RALLEGRAMENTI A TE E A MARIA.CI PROVERÒ A FARLA ! GRAZIE PER MANTENERE VIVE LE TRADIZIONI
    M.L

  2. Questa ricetta mi ha riportato alla memoria quando ero bambino (oltre 50 anni fa) e seguivo mia madre (garfagnina doc venuta in Versilia durante la guerra) che faceva la pasimata proprio come l’avete descitta: Mi ricordo ancora il profumo che emanava e il sapore non stucchevole. Mia madre ne sfornava diverse, alcune venivano mangiate per Pasqua, ma le altre, che dopo un pò diventavano dure, le inzuppavamo nel caffellatte la mattina prima di andare a scuola. Che bei ricordi.
    Stefano PASQUINI

  3. Un piccolo contributo sulla possibile origine e significato del termine PASIMATA lo si può trovare nella voce omonima del vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani (reperibile nel web).
    Il Pianigiani lemmatizza: “PAS[S]IMATA”, quindi con una variante in doppia “S” (ss < x, < cs), da un termine rumeno "PESMET", a sua volta derivante da un termine "latino-barbarico" "PASSAMATUM" (sic!?), che avrebbe un corrispondente omologo in “PAXIADI”, greco moderno, che però deriverebbe da una parola TURCA “PEKSIMET”, che indicherbbe "PASTA DOLCE CON ZAFFERANO COTTA AL FORNO"…Un po’ arzigogolata la ricostruzione, per il suo esito semantico risulterebbe comunque convincente ("pasta dolce"). Salvo domandarsi ragione storica delle ingerenze turche in zona. Provo a dare qualche alternativa etimologica: 1) in gr. antico "pàssos òinos" è il “vino fatto con uva passita”. 2) Sempre in gr. antico "Pascha" è la “Pasqua”, e quindi il termine, indicante un “dolce pasquale”, potrebbe riferirsi alla festività in cui veniva fatto. 3) Ma l’ipotesi che trovo più convincente è quella che “PAS[S]IMATA” sia un antico conio greco dal termine "paxamàs, pl. paxa-màdes o paxa-màtes", “BISCOTTO”, o dal diminutivo "paxa-màdion", “BISCOTTINO”, che contiene in sé la radice indoeuropea *PAG/PAK indicante i significati di “conficcare, piantare”, ma anche di “rendere compatto, sodo, solidificare, rapprendere”, cosa che, date le caratteristiche del prodotto per altro buonissimo e la sua spiegazione in solo ambito indoeuropeo, ben più mi soddisfa come ricostruzione storico-linguistica. Per cui "PAS[S]imata" sarebbe, infine, una sorta di "ben solido elaborato di fono", biscotto appunto.

  4. Non avrò mai così tanto tempo per fare un dolce così! E non si usa nemmeno il lievito di birra! Ma chissà, forse un giorno… Per ora mi godo l’articolo, la riflessione filosofica e metto via la ricetta! Grazie Paolo! Che cosa ci proporrai la prossima volta?

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