I vini Moser tra la Val di Cembra e le colline sopra Trento

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«Paradossalmente, il problema di produrre vini con il nome Moser è che tutti pensano che siano vini “dovuti”, vini “facili”, non che dietro ci sia una ricerca, una sperimentazione».

Matteo Moser

È una mattina soleggiata d’inizio ottobre quando arrivo a Maso Villa Warth, un’antica tenuta vescovile situata tra le colline di Gardolo di Mezzo, sopra Trento, lungo la riva sinistra dell’Adige, tra i 300 e i 500 metri di quota su terreni calcarei di matrice dolomitica. È il quartier generale dell’azienda Moser, circondato da 11 ettari di vigneto dei 25 totali di cui si compone la proprietà: qui arrivano anche le uve della Val di Cembra, terra d’origine dei Moser, dove gli ettari sono 5, tutti compresi nelle frazioni (Mosana, Palù, Verla, Ville) del comune di Giovo, e di Sorni, un ettaro di teroldego e traminer aromatico (era la vigna del nonno Ignazio) sulle colline avisiane dai terreni gessosi e calcarei.

«In Val di Cembra le vigne più alte che abbiamo raggiungono i 700 metri. Ce ne sono alcune che danno sulla valle dell’Adige, le altre sul torrente Avisio, nella parte interna. In quest’area della valle la pedologia è complessa e stratificata, ci sono i terreni calcarei del Monte Corona che si alternano con quelli porfirici di origine vulcanica». Classe 1980, Matteo Moser ha vissuto fin da bambino la vita della campagna. «Ci sono nato dentro insieme al grembo di mia madre. Sono cresciuto in un’azienda dove si parlava di catene e corone. Sono nato in una famiglia di pedali e uva. Da giovane ho cercato la via del ciclismo perché sono cresciuto con il mito dello zio Francesco, ma anche di Pantani, di Bugno. La vita però ti riserva delle sorprese e scopri che ti piace quello che faceva tuo padre, allora mi sono detto: “Perché non vai in vigna anziché in bici? Poi si è sviluppata la passione».

Matteo ottiene il diploma di enotecnico all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige («È stata una scuola bella e formativa, ma lo studio più grande è assaggiare i sapori dell’ambiente e della gente»), si laurea in enologia nel 2005 e fa esperienze in Uruguay e California prima di tornare a casa: da una quindicina d’anni ha in mano la conduzione tecnica della cantina.

Più giovane di quattro anni, il cugino Carlo Moser, laureato in Economia all’Università Bocconi, segue invece la direzione amministrativa e commerciale. Carlo è il figlio di Francesco Moser, Matteo di Diego: Diego e Francesco Moser, due di undici fratelli che fin da piccoli hanno respirato il profumo del mosto e lavorato le impervie vigne della Val di Cembra, hanno fondato nel 1979 la cantina di Palù, luogo d’origine della famiglia, anche se i primi Moser arrivarono dall’Austria sull’altopiano di Piné nell’Ottocento.

Francesco Moser sarebbe poi diventato il campione di ciclismo che tutti conosciamo, e le sue imprese sono ricordate in un piccolo museo adiacente alla sala degustazione, tra cui figura la bicicletta del Record dell’ora ottenuto nel 1984 a Città del Messico, cui è stato dedicato un metodo classico che si chiama 51,151 e appartiene, come gli altri Trentodoc della casa, al “marchio” Moser (circa 80.000 bottiglie all’anno), mentre la linea Warth produce vini fermi (circa 70.000 bottiglie).

Il Trentodoc Brut 51,151 (40.000 bottiglie, metà della produzione spumantistica aziendale), prodotto da uve chardonnay dei vigneti della Valle di Cembra e di Gardolo di Mezzo con 30 mesi di affinamento sui lieviti, ha colore paglierino leggero e luminoso, esprime all’olfatto eleganti e penetranti elementi minerali di natura scaglioso-sassosa che si riverberano in un palato definito, sottile, fresco-profondo, dalla carbonica crepitante e incisiva, dall’allungo definito e frontale.

Il Trentodoc Brut Nature 2017 (chardonnay in purezza, 60 mesi sui lieviti, sboccatura gennaio 2023) nasce da una costola del 51,151: «In quest’ultimo entra tutto lo chardonnay che abbiamo. Ne tolgo dunque una parte, per avere nel tiraggio le basi delle vigne più vocate». Colore paglierino intenso e calibrato, bouquet di fiori bianchi, evoluzione frontale ed effervescenza viva, sviluppo tonico, energico “grip” finale che allunga la persistenza gustativa.

Il Trentodoc Extra Brut Blanc de Noirs Blauen 2015 (3.300 bottiglie) è la riserva della casa: pinot nero in purezza dal vigneto Dòs dei Cedri, impiantato a pergola trentina negli anni Ottanta sulle colline di Gardolo di Mezzo a 350 metri di altitudine; sei anni sui lieviti più uno in bottiglia prima dell’immissione sul mercato; sboccatura febbraio 2022.

«Volevamo un nome che indicasse l’uva, che avesse un suo riferimento. Ci abbiamo pensato a lungo e ci siamo imposti di non uscire finché non avessimo trovato quello giusto» mi racconta Matteo. «Ci siamo infine rivolti al nome tedesco del pinot nero, Blauburgunder, perché il pinot nero è blu e il nome tedesco è più fedele rispetto a quello francese: i tedeschi sono precisi. Ma “Blau” da solo non era sufficiente: troppo tronco. Poi è arrivato il valzer di Strauss, Sul bel Danubio blu, che in tedesco è An der schönen blauen Donau e Blauen era perfetto: più dolce, più musicale. Mi sono ispirato alla sua declinazione. C’è anche un comune in Svizzera che si chiama così».

Il 2016 non verrà prodotto («Non mi piaceva l’uva»), il 2017 uscirà il prossimo anno. Il colore è paglierino intenso, l’evoluzione ossidativa al naso è controllata, il palato ha carbonica crepitante, generosa, il tratto gustativo è fresco, incisivo, rigoroso, con sviluppo sapido, crescente, che si dona integralmente in fase di persistenza.

Dal vigneto Dòs dei Cedri arrivano anche le uve di pinot nero del Trentodoc Rosé Extra Brut 2018, 48 mesi sui lieviti più 6 di bottiglia, sboccatura gennaio 2023, 3 grammi di zucchero nel dosaggio: è anche lui, come il precedente, un Extra Brut. «Il dosaggio secco non è sempre la via corretta, devi partire dalla base, dal vigneto. Il nostro Nature nasce da vigneti storici che hanno qualità e maturità, ma non potrei mai produrlo da vigneti troppo asciutti, troppo magri perché poi ti ritorna sui denti. I tre grammi s’integrano bene nel tempo. C’è un 10% di pinot nero della Val di Cembra, una percentuale davvero irrisoria. Ce ne sarà di più in futuro».

Ha colore, secondo le prospettive, rosa confetto leggero o buccia di cipolla intenso, nuance di piccoli frutti rossi e sentori floreali di rosa canina, di peonia e un palato effervescente, quasi esuberante, di bella riquadratura gustativa.

«Non mi piacciono i Rosé da frutto, per me è uno spumante come i bianchi. Non m’interessa il varietale, non lo cerco e non lo mantengo. Faccio macerazione in pressa di qualche ora e poi vinifico in bianco, c’è solo una piccola interferenza qui. La vera differenza per me è che è pinot nero, è questa la discriminante».

Il Müller Thurgau Warth 2022 proviene dalla Val di Cembra. «Siamo però ai piedi del Monte Corona: i terreni sono calcarei, non porfirici. Qui abbiamo alcuni dei vigneti più alti, belli e importanti, tra i 600 e i 650 metri di quota. Sotto i 600 metri negli ultimi anni ho tolto il müller thurgau, perché è una varietà permalosa, vuole il fresco, l’altitudine, il contrasto. Sotto i 500 abbiamo chardonnay e pinot nero per il metodo classico. Questo bianco per me è perfetto da aperitivo. Vinificazione in acciaio da uve biologiche».

Colore cristallino e naso as well: fresco-aromatico, con toni di agrumi, erbe, foglia di pomodoro. Il sorso è succoso, netto, con sapore crescente e una persistenza di salvia, erbe aromatiche e scaglia calcarea. Amo il Müller Thurgau (potrebbe essere altrimenti visto che ha come madre il Riesling?): quando arriva da terroir vocati e mani che lo sanno vinificare, è un bianco che unisce aromaticità, profondità, sfumature.

«Nel 2022 abbiamo raccolto le uve a fine agosto, ma provenendo da zone nobili hanno tenuto. Il müller thurgau vuole territori di alta qualità. La vendemmia 2023 per noi è stata ottima, all’altezza della 2021. La discriminante è stata la grandine e quella di quest’anno ha distrutto i tetti delle case: le reti antigrandine sui guyot non sono servite, perché proteggono l’uva ma la grandine distrugge le foglie, cioè i pannelli solari dell’uva. Chi non ha preso la grandine ha fatto una grande vendemmia, superiore alla 2022, che è stata disidratata e dunque poco produttiva».

Al suo esordio, il Sauvignon Blanc Warth 2021 si presenta con un colore paglierino nitido; un respiro invitante di agrume, foglia di pomodoro, sambuco, bosso, pietra minerale; un palato succoso, pieno, dove ritornano i sentori olfattivi e dove il finale si allunga in termini di sapidità e di frutto.

«Metà delle uve arrivano da qui, dal Maso, dove trovo la maturità (il fico, e non intendo il frutto ma l’aroma del suo legno quando lo poti), e metà dalla Val di Cembra, che invece dà l’ortica, il piccante, la spalla acida. È il primo sauvignon che ho fatto: penso di avere il posto giusto con il terreno giusto e un’uva che mi piace. Vinificato in acciaio, ma dal 2022 ne ho messo un 20% in vecchi tonneau. Fa sempre un anno in bottiglia prima di uscire sul mercato».

Poi arriva il Trentino Riesling Renano Warth 2021 in due versioni: tappo sughero e tappo a vite. «Stesso vino, stessa vasca, stesso tubo nella macchina imbottigliatrice, cambia solo la chiusura. Il tappo in sughero è un monopezzo Amorim, non un Diam, perché dovevo fare una prova con due tappi agli antipodi». Il colore del primo, pur cristallino, presenta un’inflessione lievemente più intensa, «marroncina» la definisce Matteo. Il naso sfoggia carattere, il palato è succoso, laminato, sapido, persistente, con un fondo d’idrocarburo già in formazione che invece non si avverte nella versione Stelvin, di colore più limpido, di uguale succosità e profondità, ma più teso, più rigoroso, più chiuso: non ha l’idrocarburo ma la “pesca minerale”. Ambedue sono espressioni verticali di bella purezza (il 2020, bevuto a pranzo alla Vecchia Sorni, l’indirizzo gastronomico più buono dei dintorni, era a un ottimo punto di fusione). Le uve arrivano da una vigna di più di vent’anni piantata in un appezzamento rivolto a nord e il vino fa affinamento sulle fecce fini per 6 mesi in botti di rovere da 25 ettolitri.

«Lo Stelvin chiama meno solforosa, mentre il sughero, bruciandola perché passa l’aria, ne vuole di più. L’ho messa in parti uguali per non fare differenze, ma lo Stelvin ne voleva di meno per giocare alla pari. Questo è l’unico vino che imbottiglio in due modi diversi: c’è chi mi chiede il sughero e chi il tappo a vite».

Poi c’è il Moscato Giallo, un altro dei “bijou” bianchi della casa. «Le vigne sono qui a Maso Warth: questo è un posto davvero bello, “super-bello” per i vini aromatici. La nostra è un’azienda dalla duplice attitudine: a Maso Warth c’è la mente, ma il cuore è in Val di Cembra. Due mondi vicini dal punto di vista geografico ma distanti: uno è trentino, nel senso di Trento, l’altro è cembrano. La maturità dell’uno e la freschezza dell’altro».

Il Moscato Giallo Warth 2022, chiuso con tappo a vite, ha colore brillante e un naso di pesca, zagara e litchi che si stanno affacciando sul balcone dell’espressione. Il palato è ricco di polpa succosa, ha senso d’uva, disegno un potenziale espressivo futuro tutto da seguire. Per averne un esempio è sufficiente aprire una bottiglia del 2017, sempre chiuso con tappo a vite: si rimane incantati dalla sua allure balsamico-aromatica, dall’ariosità varietale, dal tripudio di litchi, pesca bianca, susina, dall’inebriante sollucchero di orto, fiori ed erbe aromatiche. Sorso succoso, tonico, invitante e finale di tensione dolomitica. Altro che vini da consumare entro l’anno!

E che dire del Gewurztraminer Warth 2022? Ha colore paglierino intenso, quasi un dorato luminoso, un varietale definito e composto – non barocco – che offre sentori classici di rosa e frutto della passione, e un palato maturo, morbido, speziato, assai piacevole.

Il Teroldego Rubro 2019, infine. «Arriva da Sorni, è una riserva ma non si può scriverlo sull’etichetta perché è un IGT. Lo facevamo negli anni Ottanta e Novanta, ma era tutt’altra roba. Ci piaceva il nome, lo sentiamo nostro, non lo chiamiamo Teroldego ma sempre Rubro, come il Blauen non lo chiamiamo mai Blanc de Noirs. Lo produciamo dal 2018 con due anni di legno (barrique un po’ nuove e un po’ usate, dipende dall’uva di partenza) e un anno di bottiglia. Abbiamo saltato il 2020 e il 2021, tornerà con il 2022, ci sarà forse anche il 2023, ma lo decideremo a Natale».

Veste porpora intenso e profondo, carattere spiccatamente selvatico, legno quasi inavvertibile, frutta aspra e matura. Contrasto e vivezza.

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Contributi fotografici di Franz Perini e di Moser Trento

 

 

 

 

 

 

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Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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