I Magnifici 16 delle Marche/3 – Pergola DOC, o della singolarità

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Esiste nelle Marche una denominazione piccina picciò. Nel 2022, Federdoc denuncia per il Pergola DOC solo sette (non è un refuso) denunce di produzione, per 512 q.li di uva prodotti, corrispondenti a 358 hl di vino, ovvero nemmeno 48.000 bottiglie. L’istituto Marchigiano Tutela Vini denuncia peraltro 250 ha vitati. E’ comunque un vino antico, dalla presenza tuttora nascosta, piccola gemma che è un piacere (ri)scoprire.

Pergola è un comune incastonato ai piedi dell’Appennino marchigiano, dove l’influsso climatico stempera soltanto gli eccessi delle brezze provenienti dall’Appennino, e i differenziali termici tra il giorno e la notte sono la norma. Anche senza che le altitudini siano eccessive, specie per scolpire rossi di rango e ambizione giova che le vigne siano ben esposte, tanto più avendo a che fare con un vitigno dalla carica tannica ben presente (ma non è un Nebbiolo!).

grappolo di aleatico

La vernaccia nera di Pergola è una varietà autoctona, ma è tutto meno che una specialità solo locale. Fu portata in zona dagli abitanti di Gubbio, libero comune che in epoca medioevale aveva ambizioni di espansione territoriale, e si spinse oltre la dorsale appenninica lungo un valico presso la gola del Bottaccione, ove poi sono stati rinvenuti fossili di dinosauri, fino alla conca di Pergola. I “conquistatori” umbri si portarono dietro un vitigno che allignava nella valle del Tevere, in cui era giunto dalla Tuscia e dalla Val d’Orcia, dove era arrivato dalla costa etrusca dove si trovava in quantità, visti gli ottimi risultati che dava nella limitrofa isola d’Elba. Perché non è nient’altro che l’aleatico, che in zona per lo più rinuncia alle dolcezze per cui più è famoso, e viene vinificato secco.

Con italica tendenza a non scontentare chicchessia, la DOC, istituita nel 2005, prevede -tanto per cambiare- una beneficiata di tipologie: il Pergola Rosso (anche in versione Novello – sembra non se ne possa proprio fare a meno… –, Superiore e Riserva) si accontenta del 60% minimo di Aleatico. Idem il Rosato, che esiste anche in versione Spumante. In caso di esplicita indicazione del varietale in etichetta, si sale al consueto 85% minimo, e la scelta può declinarsi anche nelle tipologie Superiore, Riserva, Spumante e Passito. Va da sé che vista la particolarità del vitigno di base, è rarissimo che i produttori lo “confondano” con altre uve.

A livello di indicazioni generali, il Disciplinare prende atto dell’orografia dell’areale di produzione (le vigne possono trovarsi tra i 150 e i 600 mt. slm, con “adeguata sistemazione idraulico-agraria”). Restrittiva la prescrizione delle forme di allevamento (solo cordone speronato e Guyot semplice o doppio e loro varianti), e anche quella della resa di uva in vino (max 70%, ma 40% per il Passito); meno invece il numero minimo di ceppi/ha per i nuovi impianti (2.200), e le rese per ettaro: Rosso e Rosato stanno a 120 q.li/ha, che specie per un Rosso non sono proprio pochissime.

Terracruda

Un po’ più convintamente a favore della qualità, si riducono a 100 q.li/ha per Rosso e Aleatico “d’annata”, e a 90 q.li/ha per l’Aleatico Superiore. I Riserva (Rosso e Aleatico) devono essere affinati 24 mesi a decorrere dal 1° novembre successivo alla vendemmia, di cui due soltanto obbligatori in bottiglia. Ovvero, la permanenza in legno non è obbligatoria, poiché non è citata. Peraltro, il Disciplinare medesimo recita che, con l’esclusione della tipologia Novello, “In relazione alla eventuale conservazione in recipienti di legno […], nel sapore [sic] dei vini […] si potrà rilevare sentore di legno”. Hai visto mai che quando il testo fu delineato, qualcuno si sia peritato che una varietà così aromaticamente esuberante potesse essere condizionata in negativo dalla presenza dei profumi dovuti al legno, che peraltro all’epoca andavano sempre per la maggiore, e abbia pertanto ritenuto opportuno specificare esplicitamente “che ci potevano stare”…

Tanto rara è la denominazione che anche in un tour come il nostro, dedicato al comprensorio della provincia di Pesaro, abbiamo degustato solo 5 referenze, di cui due in Rosa, oltre a una indicata come Superiore e una come Riserva; annata 2022 per i vini pensati da bersi più nell’immediato, e 2018 per i progetti più ambiziosi. Non era difficile immaginare come l’esuberanza aromatica dell’Aleatico, pardon della Vernaccia Nera di Pergola, fosse particolarmente consentanea alla produzione di Rosato.

Scordiamoci ovviamente gli stilemi provenzali, perché il colore tende al cerasuolo, anche se scarico, e in entrambi i Rosati assaggiati, in rigoroso ordine alfabetico il Codazzo dell’azienda dal simpatico nome di Terracruda, e il Fiori di Villa Ligi (antesignana della denominazione e protagonista della riscoperta del vitigno), il naso esplodeva di boccioli di rosa, macchia mediterranea, piccoli frutti rossi. Una sensazione di maturità quanto mai didattica per meglio comprendere l’influenza della percezione olfattiva sulla generale impressione della degustazione: ci si aspettava (forse anche per precedenti esperienze elbane) un sorso segnato dal residuo zuccherino, e invece i vini erano assolutamente secchi, anche se avvolgenti, nobilitati da una freschezza spiccata, che in vini più sottili avrebbe potuto risultare proterva.

In pratica c’era solo un Pergola DOC Aleatico tal quale: il Vernaculum di Villa Ligi, di formidabile espressività al naso, e ovviamente più semplificato in bocca, come spesso avviene con i vitigni aromatici. Ma non spiaceva comunque per il tannino felpato, la beva facile e aggraziata, la larghezza all’attacco del sorso e l’allungo importante, entrambi netti su richiami vegetali rinfrescanti, senza derive amare.

Ma questa declinazione era pur sempre un’annata nuova, appena messa in commercio, mentre gli ultimi due vini propostici erano qualcosa del tutto nuovo, non solo in quanto rossi ambiziosi a base Aleatico, ma anche e soprattutto in quanto concepiti in funzione di un lungo affinamento, la qual cosa per questa varietà rappresenta un’eccezione pressoché unica: né all’Elba, né a Gradoli né altrove capita spesso di imbattersi in rossi aspiranti all’evoluzione, e alla terziarizzazione della loro dimensione organolettica. Lo stesso Istituto Marchigiano Tutela Vini, sulla scheda informativa della denominazione, comunica che in “condizioni ideali di cantina” il Pergola può evolvere due-tre anni; qui siamo a cinque (annata 2018): i produttori vogliono alzare l’asticella.

Il Grifoglietto di Villa Ligi, Aleatico Superiore DOC, proviene da un cru di vigne vecchie untracinquantenni che insistono su suoli argillosi, fermenta con lieviti indigeni e affina (affinerebbe) per 10 mesi in botte grande. Il prodotto quello è (28-32 hl max), quindi in realtà di solito bastano un tonneau e due barrique, comunque l’idea è che il rovere faccia il suo lavoro di arrotondamento dei tannini e complessazione aromatica, e non incida più di quel che deve.

Il colore si mantiene rubino con un tono giovane, il naso intriga per complessità, con un inizio di terziarizzazione elegante che vira su richiami affumicati, di macchia mediterranea e di uva passa. Il palato è largo e in beva, più risolto della parte olfattiva in termini di espressione di maturità del frutto (ciliegia matura e amarena). La naturalezza con cui il sorso si distende e riempie la bocca lo rende molto piacevole, e la gradazione alcolica – dalle parti dei 14°- è funzionale all’equilibrio complessivo. Tutto sembra, meno che un vino stanco. Magari non evolverà ancora molto, ma così com’è adesso può dare soddisfazione sia a chi cerca l’immediatezza del frutto, sia a chi aspira a una finezza più ricercata.

Il proprietario di Terracruda ha “minacciato” i giornalisti convenuti per l’evento I Magnifici 16 di anatema e sventure, se non avessimo decantato le qualità dei vini che ci erano stati proposti… Ma non è questoa la ragione per la quale scrivo volentieri del Lubaco, che si presentava come Aleatico Riserva DOC. La gioventù del colore non richiama un affinamento svoltosi per i primi 12 mesi in barrique non tutte di primo passaggio, con evidenti fini di “sgrossatura”, e successivamente in tonneaux. Anche il corredo aromatico non ne pare condizionato: di più che adeguata intensità, sulle prime quasi da vendemmia tardiva, con il fruttato che si articola anche con un tono affumicato e su richiami varietali di macchia mediterranea. L’ossigenazione svela invece una personalità più fragrante, con l’emersione di un floreale accattivante, anche questo non sconosciuto al vitigno. Il sorso è pimpante, teso, sapido, largo all’ingresso in bocca, con un minimo di semplificazione aromatica. In compenso è morbido, si giova di un tannino elegante, con un finale di sufficiente lunghezza che ripropone i riconoscimenti di gariga. Sono 1.800 ricercate bottiglie che contemperano sapientemente ambizione e bevibilità, con buona pace di chi ritiene la Vernaccia Nera (pardon, l’Aleatico) votata soltanto alla produzione di vini dolci.

E’ proprio questa la lezione che si può trarre da questo breve ma intenso incontro con il Pergola DOC, che potrebbe e dovrebbe essere meditata dai produttori elbani (e non solo). Sull’isola ci si lamenta della diminuzione dell’affezione verso i vini passiti, e si cerca rimedio al calo di vendite dell’Aleatico DOCG sperimentando e impegnandosi con altri vitigni a bacca nera, l’ubiquo Sangiovese in primis, ma non solo. Ma un mercato sempre affamato di novità e singolarità, specie all’estero, potrebbe essere intrigato dalle risorse di tal vitigno per la produzione di vini da tavola, e per una prospettiva di evoluzione/invecchiamento ancora tutta da esplorare.

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Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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