Secondo Carlo Gustavo Jung “pensare è molto difficile, per questo la maggior parte della gente giudica. La riflessione richiede tempo, perciò chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente giudizi”.
Vero, tuttavia non sempre e comunque vero. In molti momenti della giornata è vero il contrario: pensare è pericolosamente facile, e il difficile invece è non pensare. Dimenticarsi delle cose è un’arte. Poiché, con il Guicciardini, “non v’ha effetto più pernicioso nell’animo che il rinnovare nel pensiero le cure passate, presenti et future”.
Il vino ci soccorre anche in questo. Forse soprattutto in questo. A patto che ci si muova sul crinale sottilissimo tra ebbrezza alata e ottenebramento. Un’altra citazione: l’ultima per oggi. Nel suo saggio – molto saggio – sugli effetti psicologici del vino, Edmondo De Amicis rimarca plasticamente questa differenza decisiva proponendo l’osservazione delle opere di due pittori olandesi del ’600 pressoché coetanei, Jan Steen e Bartholomeus Van der Helst:
“Nei quadri di Steen è rappresentata l’orgia ignobile, il baccano della taverna, visi istupiditi, atteggiamenti osceni , etc. Nei quadri del Van der Helst sono rappresentati dei banchetti gioviali, (…) cittadini di tutti gli ordini dello stato fanno brindisi e conversano fraternamente, (…) eccitati ma composti, con un sorriso negli occhi che ispira nello stesso tempo l’allegrezza ed il rispetto”
A questa variopinta congerie di verità relative pensavo alcuni giorni fa assaggiando una mini verticale dell’artigianalissimo rosso di Enrico Togni, il 1703. Enrico è un giovane e volenteroso vignaiolo della remota Valcamonica. Un ragazzo che lavora con l’animo più entusiastico e determinato possibile. Da uve nebbiolo, per la legge italica è un vino rosso da tavola, “perché nebbiolo in purezza non è ammesso dal disciplinare della denominazione Valcamonica igp. 1703 è una quota altimetrica, nello specifico del massiccio del Monte altissimo che letteralmente sovrasta le vigne”, nelle parole di Enrico.
Tutto ipernaturale, in vigna e in cantina.
“In vigna biologico certificato e biodinamico non certificato. Sul concetto personale di biodinamico dovrei spendere alcune parole: per me non è un solo uso dei preparati, decotti e consultazione del calendario, ma principalmente la creazione di un vero organismo agricolo complesso per cui va bene la vigna, ma non la monocoltura esclusiva. Quindi accanto alla vigna ho piante da frutta, boschi, piante micorizzate per la produzione di tartufo, erbe officinali, api, pecore e galline.”
Un approccio così radicale, molto apprezzabile negli intenti, rischia qualche leggero sbarrocciamento di gioventù, e difatti alcuni millesimi iniziali – a parte l’ottimo 2015 – offrono un vino verace ma qua e là piuttosto chiaroscurale e impreciso negli esiti degustativi. Dal 2019 la musica cambia. “In cantina piede di fermentazione da lieviti spontanei, niente solforosa fino alla primavera, poi macerazione a bacca intera in tini troncoconici da 10hl per un periodo variabile tra i 120 e i 160 giorni. Prima mi fermavo a 90 giorni, questo per consentire ai tannini di polimerizzare. Poi legno per 10 mesi e cemento per altri tre, ma dal 2019 ho deciso di imbottigliare dopo la macerazione e credo sia la strada giusta. Il vino guadagna in verticalità e piacevolezza, resta più integro”.
Confermo. Il 2019 ha una freschezza di frutto e una nitidezza di contorni molto promettente. E funziona benissimo nel disperdere i grumi di pensieri molesti della giornata, consentendo all’essere umano della categoria bevitore seriale di dimenticare il dimenticabile.
PS ah, dimenticavo, appunto: perché la spuma della Coca Cola non persiste? Perché, una volta versata nel bicchiere, illude con una corona di spuma simile a quella della birra, e poi la fa subito svanire?
Conoscevo la risposta, ma dovevo trascriverla più sopra, perché ora me la sono scordata.