Disciplinari Do, eredità di un passato che condiziona ancora il presente

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di Vittorio Fiore, enologo

Rigidi, vincolanti, vere e proprie camicie di forza per i produttori che vogliono sperimentare. Oggi c’è bisogno di una rivoluzione copernicana. Il caso Brunello insegna.

Vorrei innanzitutto partire da una premessa, che a mio avviso ci aiuta a capire le molte distorsioni, lacune, contraddizioni, anomalie e deficienze che contraddistinguono i disciplinari di produzione dei vini a Do (Denominazione d’origine) in Italia, fin dalla loro nascita (1963). Va infatti ricordato che la prima legge che ha regolamentato il varo dei suddetti disciplinari, e cioè la n. 930 del 1963, si basa su di un presupposto clamorosamente sbagliato, che – però – ha poi condizionato la stesura e l’applicazione di tutti i disciplinari dei vini a Do. Tale presupposto considera infatti che la situazione in essere, che caratterizzava la produzione dei vini in Italia in quel momento storico, rappresentasse il massimo del potenziale qualitativo che si potesse raggiungere, per cui non necessitava di miglioramenti, né tantomeno di evoluzione sia viticola che enologica. In pratica, la fotografia di un panorama da non modificare in assoluto e – se possibile – da consegnare ai posteri perché lo mantengano il più possibile inalterato.

Il paradosso

Questa impostazione comporta l’imposizione di tutta una serie di norme volte a fossilizzare la situazione del comparto viticolo enologico italiano, senza prendere in considerazione il benché minimo periodo di studio, di sperimentazione, di verifica, né tantomeno l’ipotesi di una evoluzione, sia dal punto di vista della tecnica vitivinicola e della tecnologia enologica, come pure da quello del mercato. Si arriva al paradosso, secondo il quale un vino non può aspirare al riconoscimento della Do se i richiedenti non sono in grado di dimostrare che tale vino è già conosciuto da almeno cinque anni con il nome che rivendica come Do e che in passato è stato prodotto seguendo le procedure che si richiede vengano rese obbligatorie per la produzione di quello stesso vino una volta ottenuta la Do. In pratica, ogni vino che aspiri a divenire a Do viene considerato come una sorta di reperto archeologico, da catalogare e consegnare a quella specie di museo dell’orrore che diventeranno le Do italiane. E così i disciplinari di produzione vengono redatti inzeppandoli di regole, regolette (la maggior parte delle quali assurde e anacronistiche), luoghi comuni, lacci e laccioli vari, con i quali si tende in vari modi a indirizzare il produttore verso il mantenimento dello “status quo”, come se da quella specifica zona di produzione non si potesse ottenere niente di meglio e/o niente di più alto livello qualitativo di quanto non si sia ottenuto fino a quel momento.

Un esempio pratico

Un esempio per tutti: in tutti i disciplinari varati dal 1966 a oggi impera la seguente norma: “Art. 4. – Le condizioni ambientali e di coltura dei vigneti destinati alla produzione dei vini di cui all’art.2 devono essere quelle tradizionali della zona e comunque atte a conferire alle uve ed ai vini le specifiche caratteristiche. (omissis) I sesti d’impianto, le forme di allevamento e i sistemi di potatura devono essere quelli generalmente usati o comunque atti a non modificare le caratteristiche delle uve e del vino”.

Come si vede, dunque, è vietato apportare qualunque tipo di modificazione o di introdurre qualsivoglia tecnica innovativa sul piano agronomico e viticolo, con buona pace delle ricerche e delle acquisizioni eseguite e conseguite negli ultimi decenni in fatto di selezione clonale, sesti d’impianto, densità di piantagione e chi più ne ha più ne metta. La stessa cosa vale per l’aspetto enologico, laddove i disciplinari recitano: “Nella vinificazione sono ammesse soltanto le pratiche enologiche locali, leali e costanti, atte a conferire al vino le sue peculiari caratteristiche”. Sul piano pratico, tali norme comporterebbero (o meglio ancora: comportano) che tutte le variazioni colturali apportate negli anni ai vigneti iscritti agli Albi delle varie Do, anziché valorizzarli, poiché divenuti in grado di produrre uve di più alto livello qualitativo, potrebbero essere, invece, causa del loro declassamento, facendo così perdere il loro diritto di produrre uve atte a generare vini a Doc o a Docg. Lo stesso concetto vale quindi per le pratiche enologiche, che – a rigore di termini – dovrebbero essere ancora quelle adottate… nella notte dei tempi.

Un vincolo assoluto

Ciò significa anche non rendersi conto che far diventare legge una qualsivoglia pratica o consuetudine comporta il vincolo assoluto al rispetto di tale pratica o consuetudine, senza alcuna tolleranza, a meno che non sia debitamente prevista. E tale concetto mi porta a sottolineare come in nessun campo dell’attività umana non sia previsto un margine di tolleranza. (omissis) Oggi, pertanto, è necessario indicare soglie massime, sicuramente non dannose, ma altrettanto sicuramente individuabili con i moderni metodi a disposizione dell’analista. Pensiamo, in proposito, al vasto campo della ricerca genetica e alla sempre maggiore conoscenza dei segreti del Dna, che proprio nel settore viticolo ha portato alla luce aspetti estremamente interessanti, che ci hanno permesso di determinare finalmente con certezza l’appartenenza di importanti vitigni a ben definite famiglie di cultivar, come pure parentele impensabili nel variegato panorama viticolo mondiale.

Tutti uguali

Tutto ciò per mettere in evidenza come ancora oggi i disciplinari di produzione dei vini a Do siano progettati e redatti molto spesso con il criterio del “copia-incolla”, destinati quindi a perpetuare lo “status quo ante”, piuttosto che sulla base di una nuova filosofia produttiva, capace di conferire alla vitivinicoltura italiana il suo vero volto, quello cioè conquistato sul campo, molto spesso (per non dire quasi sempre) a dispetto delle insensate regole dei disciplinari. Come fu, ad esempio, all’epoca della nascita dei “SuperTuscans”, vini nati in Toscana ma divenuti ben presto alfieri di tutta la produzione nazionale, che costituirono un “j’accuse” dei produttori e dei tecnici più preparati imprenditorialmente e tecnicamente contro le assurde norme adottate nella produzione dei vini a Doc e Docg che – secondo le migliori intenzioni – avrebbero dovuto traghettare il comparto vitivinicolo italiano dal ghetto in cui lo si era sospinto all’indomani della seconda guerra mondiale verso una posizione di primato qualitativo a livello internazionale e che – invece – costituivano una vera e propria, palude normativa, che veniva ripudiata dagli stessi produttori in un’alta percentuale di casi. Ma – mi si obietterà – le norme contenute nei disciplinari sono per la gran parte volute e sostenute dagli stessi produttori, a cui la legge quadro (nella fattispecie oggi la 164, ieri la 930) attribuisce la facoltà di proporre tali norme che, se compatibili con la legge quadro, vengono poi trasformate in legge dello Stato. Questo è vero, ma ci sono due aspetti da evidenziare: il primo è che è la stessa legge quadro a cui si deve fare riferimento a essere una “gabbia normativa”, fatta di corsie obbligate e di imposizioni minuziose a cui i proponenti si devono attenere; il secondo aspetto da evidenziare è costituito dal fatto che, nella maggior parte dei casi, chi si assume il compito di redigere un disciplinare (ma sulla qualifica di questi “redattori” ci sarebbe da aprire un capitolo a parte) si sente come investito da un “vento divino”, che lo allontana dalla realtà quotidiana e lo spinge a riempire questi documenti di criteri astratti, espressi con proclami tanto altisonanti quanto vuoti di contenuti, con l’obiettivo più di fare colpo sul “giornalista”, che di preoccuparsi di fornire poche regole semplici, di facile applicazione e di ancor più facile controllo, che puntino a esaltare e valorizzare il potenziale qualitativo territoriale (la qualità sta nell’origine). Non c’è nemmeno l’umiltà di andare a vedere cos’hanno fatto i nostri cugini d’Oltralpe nei 150 anni che hanno preceduto la nascita delle Do in Italia. Né la curiosità di capire quali sono state le strategie produttive (e commerciali) che hanno permesso ai vini francesi di conquistare il mondo e di fare del vino un business di enorme interesse sociale ed economico.

L’esempio francese

Istruttiva, in merito, è la lettura del disciplinare del Bordeaux Supérieur, che in un solo articolo contiene le norme per la produzione di questo prestigioso vino, che investe un’area in grado di produrre ogni anno qualcosa come 5 milioni di ettolitri di vino. Si veda – a proposito dei vitigni da utilizzare – la semplicità del punto 1º dell’allegato, per cui il produttore può scegliere fra ben 17 differenti varietà principali (per cui non se ne escludono nemmeno altre) quella/e che più gli aggrada/no e stabilire liberamente le percentuali di utilizzo. Auguriamoci che chi metterà mano al rinnovamento della 164 abbia un sussulto di cultura viticola ed enologica e si lasci contagiare dal pragmatismo francese, in modo da fornire a tutto il comparto lo strumento più adeguato a rilanciare la vitivinicoltura italiana, consentendo alle centinaia di migliaia di produttori di esprimere al meglio lo straordinario potenziale qualitativo dei meravigliosi territori nei quali si coltiva la vite nel nostro Paese.

Il caso Brunello

In altri tempi mi sarei fermato qui, fiducioso che si potesse aprire un dibattito costruttivo, sulla base delle mie affermazioni, volutamente provocatorie. Ma oggi non mi è possibile non proseguire, perché i giorni che stiamo vivendo sono fra i più bui e oscurantisti della nostra recente storia vitivinicola, che mostrano il manifestarsi da più parti di una volontà da un lato persecutoria e dall’altro autolesionista, del tutto inaccettabili e incomprensibili. Mi riferisco, evidentemente, agli avvenimenti che hanno riguardato le modalità di produzione del Brunello di Montalcino da parte di alcuni produttori, in merito alle quali sono in corso accertamenti da parte della magistratura, per verificarne la conformità con il dettato del relativo disciplinare di produzione.

Il punto focale della questione, però, non è tanto l’aspetto strettamente legale (che, ripeto, riguarda l’attività di indagine dei magistrati), bensì la formulazione del disciplinare, che, prevedendo il solo utilizzo del vitigno Sangiovese per la produzione del Brunello, in punta di diritto (come direbbe un dotto giurista) non dà adito al benché minimo margine di tolleranza. E ciò – a mio avviso – è francamente inaccettabile.

Tre obiezioni

Inaccettabile sul piano statistico, perché, come ho già evidenziato più sopra, in ogni settore di attività (e più che altrove dovrebbe esserlo nel settore agricolo del quale fanno parte le Do dei vini), è prevista una soglia di tolleranza. Pensiamo alla fornitura di 50.000, 100.000 barbatelle di Sangiovese (o di qualsiasi altra varietà destinata a produrre vini a Doc o a Docg da monovitigno), per la quale il vivaista dovrebbe garantire l’assoluta assenza anche di una sola di esse appartenente a un’altra varietà: impensabile! Oltretutto si tratta di un carico di responsabilità che va a gravare sulle spalle del produttore, senza che egli possa avere una possibilità di controllo e di intervento. Inaccettabile sul piano pratico: pensiamo ad esempio ai vecchi vigneti piantati negli anni Sessanta e Settanta, in un’area (quella di Montalcino), dove imperava la cultura del Chianti, che portava con sé il criterio del vigneto multivarietale, per cui non veniva attribuita alcuna rilevanza alla presenza di qualche pianta di Canaiolo o di Colorino (se non addirittura di Malvasia e Trebbiano), vigneti che via via sono stati collaudati e dichiarati idonei all’iscrizione nell’Albo del Brunello di Montalcino. Inaccettabile sul piano organizzativo: come si può escludere che nella frenesia della vendemmia, in un’area come quella di Montalcino, dove convivono quattro denominazioni di vini rossi (Brunello, Rosso, S. Antimo e Chianti) e un’Igt, non succeda che un carrello di “non Sangiovese” vada a finire nella linea del Brunello o del Rosso di Montalcino, con tutte le conseguenze che si possono avere con una legge simile applicata con rigore? Senza parlare poi dell’attività di cantina (che non è un istituto farmaceutico, né vuole esserlo), dove, per un errore umano o per ignoranza (sempre vino è), possa avvenire una mescolanza non voluta fra il Sangiovese da Brunello e un vino di altra varietà e pregiudicare in tal modo la purezza del Sangiovese.

Gli antociani

E, per finire, alcune considerazioni sulla metodica analitica prospettata come risolutiva di ogni dubbio sulla purezza del Sangiovese e cioè la cosiddetta analisi del profilo antocianidinico. A un attento esame essa si dimostra inattendibile allo stato attuale delle conoscenze e delle esperienze. Troppe sono le variabili che possono modificarne il risultato finale; pensiamo soltanto ai numerosi cloni di ultima generazione del Sangiovese, alcuni dei quali – nel corso di una recente indagine universitaria – hanno prodotto vini con valori molto al di fuori dei parametri indicati come limite per il Sangiovese, oltre a tutte le altre variabili, che vanno dalle condizioni fitosanitarie delle uve alle tecniche di vinificazione, dalle cure che vengono adottate (o meno) nella conservazione del vino fino allo stato evolutivo del vino in funzione della sua età e molte altre ancora. Far dipendere la credibilità e l’immagine di un intero territorio e delle aziende che con fatica negli anni le hanno costruite da tutti gli elementi di incertezza e di aleatorietà che ho cercato di esporre, mi sembra francamente inaccettabile. Mi auguro soltanto che le scelte che verranno adottate e che costituiranno le linee guida per il futuro delle denominazioni di origine italiane scaturiscano da un attento esame degli errori del passato e da una lungimirante visione dei tempi che ci attendono.

NOTA
Questo testo di Vittorio Fiore raccolto da Andrea Gabbrielli viene pubblicato su L’AcquaBuona in forma ridotta per gentile concessione del settimanale Corriere Vinicolo che ringraziamo. Per chi fosse interessato, la versione completa è apparsa sul Corriere Vinicolo n°26 del 30 Giugno 2008.

L’immagine di Vittorio Fiore è tratta dal sito: www.enologyinternational.com

L'AcquaBuona

6 COMMENTS

  1. c’e’ poco da aggiungere, Vittorio Fiore ha fatto una disamina realistica e dettagliata. Se vogliamo entrare nel terzo millennio bisogna togliere il controllo delle DO alla politica o ai ministeri, creare un authority che si occupi di sfoltire e razionalizzare il sistema delle DO, che sia composta da personalita’ dotate di competenza scientifica e tecnica, anche non italiani, che non debbano rispondere a logiche di bassa politica o di cortile.

  2. Sono d’ accordo con il collega Fiore, i disciplinari di produzione di molte DOC – DOCG ,sono troppo vecchi e non tengono conto dell’evoluzione dei gusti del consumatore e delle nuove teciche enologiche , non e’ possibile per esempio utilizzare tappi in silicone per le docg.
    Bisogna avere il coraggio di modificare i disciplinari di produzione e nel caso di doc poco rivendicate ,trasformarle in I.G.T.
    enologo Armando Montobbio.

  3. Stimolante l’articolo di Vittorio Fiore. Condivido la critica costruttiva della prima parte dell’articolo, dove viene espressa l’esigenza di non fossilizzare i disciplinari entro regole anacronistiche e non rispondenti alla creatività lavorativa dei viticoltori che, come è accaduto nel passato, dovrebbero avere il diritto di non sentirsi imbalsamati. Il rischio, d’altra parte, è quello che le innovazioni seguano troppo frettolosamente le mode del momento, senza autentiche , metidate e provate innovazioni, solo per seguire un ipotetico vitigno vincente. Questo rischio, a mio modo di vedere assai attuale, sarebbe contro tutto ciò che di più ripagante le viticolture millenarie hanno insegnato al mondo, e noi europei dovremmo essere i più gelosi custodi di simili tesori, quando ci si presentano davanti. Molte posizioni in questi anni passati non hanno però dimostrato una tale consapevolezza, scegliendo allegramente delle strade “migliorative” che non ritengo faranno la storia.

    Piena adesione, sul caso Brunello, al criterio di prova riguardante gli antociani. Mi pare alquanto inquietante che criteri di ricerca vengano così facilmente adoperati come prove di “verità” e applicate a contesti complessi. E’ un mondo questo che ci sta camminando a fianco e che non può non preoccupare. Poco invece mi convincono le “tre obiezioni”, che mi paiono deboli e un poco sorprendenti, se riferite ad un mondo produttivo di prim’ordine. Le inquinanti vivaistiche sono statisticamente irrilevanti in genere e comunque rimediabili. Le altre eventualità ritengo che in cantina non dovrebbe accadere.

  4. Sono consulente marketing di vino italiano in California e penso che una “Rivoluzione Copernicana” anche se potenzialmente positiva, può essere molto pericolosa per il futuro del Vino italiano all’estero in questo momento di globalizzazione del vino.
    Il mercato Californiano di Vino, come quello dell’America in generale, sta’ avendo un “BOOM” eccezionale anche durante una economia non positiva. Ogni giorno un nuovo WINE BAR/ Enoteca apre o Restaurant organizza Wine Dinner.
    Il vino sta’ entrando nel “everyday life” degli americani e se vediamo le statiche, con un consumo pro-capite U.S.A. di solo di 8/9 litri, sono diventati quest’anno i più grandi consumatori di vino del mondo. Non mi voglio immaginare quando arriveranno vicini al consumo pro-capite italiano 45 litri, quanto grande il mercato diventerà’ e quante pericolose opportunità’ di business si apriranno per il Vino Italiano.
    Comunque il mercato californiano e’ ancora molto giovane, instabile e pieno di contraddizioni, ma soprattutto senza storia del vino e del palato per renderlo solido. E’ per questo motivo, che ha tanto bisogno di Vini con storia e radici solide. Un mercato molto aperto e sensibile al prezzo, che ha bisogno di sentirsi sicuro con vini di “Carattere” che hanno la riconoscenza del “vecchio mondo”.
    Il Brunello non solo e’ un vino di carattere dal punto di vista del gusto, ma e’ soprattutto l’immagine del Made Italy, un vino Toscano, privilegiato, super premiato, costoso e tutto questo lo rende “Speciale”.
    La Speciale esclusività e’ in pratica il segreto del Brunello!
    Il fatto di cambiare il disciplinare può’ essere il primo passo per distruggere l’esclusività!
    Qui in America chi beve “Brunello” per il 70% lo fa’ solo per l’ ESCLUSIVITÀ’, perché’ e’ veramente famoso, costoso e ti fa fare sempre una figura molto importante come conoscitore di vino, facoltoso, che vuole il meglio e con un carattere ben determinato.
    Esclusività/Costo, Carattere del Vino/Gusto Internazionale, sono i Trade off nel mondo del globale del vino.
    In un mercato del vino perfetto se vuoi un “vino esclusivo” di qualità’ non e’ detto che deve essere super caro, ma ovviamente non e’ facile da trovare ma soprattutto saperlo apprezzare.
    In mondo di Sommelier se vuoi un “vino di carattere” che esprima le caratteristiche storiche e del terroir della sua origine, non può aver un gusto internazionale e voler piacere a tutti e in tutte le annate.
    Nel dare la possibilità’ di produrre liberamente in un mercato in tale espansione c’e’ il rischio di dare la libertà’ di sperimentare nella direzione del successo sicuro ed immediato. In futuro questo esperimento diventerà’ solo uno come tanti simili e l’immagine di vino “Esclusivo italiano” andrà’ a sfumarsi in un una miriade di vini globali, che hanno tutti lo stesso odore, sapore e tutti vogliono essere sicuri di piacere ora e sempre, senza interessarsi del Wine Lover/Consumatore, ma solo illuderlo con sapori facili da riconoscere e veloci da consumare.
    In un mercato come quello del vino in America, che consuma una grossa fetta del vino prodotto in Italia e’ pericolo ricevere una rivoluzione.
    Una rivoluzione più’ sicura sarebbe quella nell’aiutare il Wine Lover/Consumatore finale a capire e formare il palato. Questo pero’ comporta grossi investimenti a lungo termine, che non credo nessun consorzio italiano si vuol prendere la responsabilità’ di fare.
    La realtà’ del Brunello come del Vino italiano e’ al momento di svolta’ importante, Credo che il futuro sarà nel carattere di ogni produttore di Brunello o un di qualsiasi altro vino italiano e guardarsi allo specchio e prendere la decisione di che vino fare e di quale rivoluzione fare parte.
    Io da semplice Venditore di Vino Italiano in Califnornai, mi risulta che in ogni ristorante, wine bar, o distributore dove presento un brunello, non battano ciglio nel pagare profumati dollari a bottiglia, facendo a gara nel comprarlo, mentre altri vini molto meno famosi ed esclusivi sono molto più’ difficili da promuovere.
    Questa e’ la potenzialità’ di un Marketing di nome Brunello fatto di tanti anni, cultura, storia, tradizioni, terroir e qualità’ garantita senza compromessi!.

  5. Dei vari aspetti sollevati, provocatori o meno, vorrei considerare quello relativo all’affaire Brunello e in particolar modo alle conseguenze legali che le presunte violazioni del disciplinare stanno avendo. Mi sembra infatti veramente paradossale che forze di polizia e magistratura debbano perdere il loro tempo per indagare e sanzionare una eventuale violazione che riguarda l’utilizzo di un vitigno diverso da sangiovese.

    Quale che sia la genesi storica dei disciplinari è ovvio che essi, oggi, servono a tutelare esclusivamente il pregio commerciale di un vino e quindi l’interesse commerciale dei produttori stessi, ed è quindi assurdo che lo stato si prenda carico di questi interessi, emetta dei Disciplinari che sono leggi e che quindi debbano essere fatti rispettare come tali. Che siano le singole associazioni di produttori a decidere caso vuol dir Brunello, Barolo, o altro, e che siano loro stesse a buttare fuori chi non segue i regolamenti, se vogliono appunto tutelare i loro stessi interessi.

    Se domani la maggioranza dei produttori di Montalcino decidesse che vuole fare il Brunello col merlot io non ci troverei nulla di strano. Mi dispiacerebbe certo, come mi dispiace per tutte le altre valide tradizione alimentari, e non solo, che sono state sacrificate alla e dalla stupidità del mercato, ma non invocherei la magistratura per spedire tutti in galera. Se il futuro Brunello sarà merlottato io non lo comprerò, e probabilmente non lo compreranno neppure tutti quegli statunitensi che oggi, come ci racconta Luca Forte, non battono ciglio nel pagare profumatamente il nome che vedono sulla bottiglia.

    Lo stato faccia piuttosto una seria legge che identifichi con precisione cosa significa “vino” e vieti l’utilizzo di tutta quella sarabanda di prodotti chimici che oggi vanno a finire in bottiglia, quelli si rischiosi per la salute e/o comunque corruttori del legame tra uva, territorio e vino. Fatta le legge, la si applichi poi con severità, senza perder tempo dietro ai 3 filari di merlot nella parcella del sangiovese.

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