Diari d’Oltrepò. “Il vino è una cosa seria”. Ovvero, la resistenza dei vignaioli pensanti/1

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INTRO

L’immagine simbolo dell’Oltrepò vitivinicolo potrebbe riassumersi in una anomalia di colore, ossia in quei fazzoletti “pendenti” di incolto e boscaglia cresciuti nel bel mezzo della collina del Buttafuoco, in Valle Solinga, uno dei “bricchi” storicamente più reputati del territorio. Non è il solo caso, purtroppo. Ma come si spiega che esistano ancora oggi dei cru eccezionali, vocati per razza e tradizione, parzialmente abbandonati a se stessi? E come mai nei fondovalle la vigna alligna e prospera che è un desìo?

Qui sta il paradigma dell’Oltrepò, qui il retaggio di un passato a luci ed ombre, che ha visto alternarsi traiettorie ascendenti di notorietà e picchiate decise in odor di anonimato. Che è poi quello di avere piegato la produzione di uve, mosti e vini alle ragioni dei numeri e dei facili commerci (piazze privilegiate e voraci come Milano, in fin dei conti, hanno alimentato stanchezza qualitativa più che voglia di migliorarsi), prospettiva quest’ultima da cui ne è discesa la ricerca del modo più indolore e soprattutto meno costoso per ottenerli, quei numeri. Se tanto i prezzi di mercato sono quelli, chi me lo fa fare di lavorare sui versanti collinari, di per sé molto meno produttivi, caratterizzati spesso da vertiginose pendenze e da suoli poveri e sciolti a rischio di erosione?

A questa evidente anomalia, di cui non è certamente immune il locale consorzio di tutela, fin troppo debitore dei colossi cooperativi che ancor oggi ne costituiscono l’ossatura decisionale, c’è chi si è ribellato, e magari ha pagato con l’isolamento la sua resistenza agli accomodamenti. Non sorprenda perciò se il tessuto connettivo di una intera comunità agricola si sia sfrangiato in rivoli diversi e abbia nel tempo perduto la piena capacità di penetrazione comunicativa che sola attiene alla coesione. Eppure è sulla strenua volontà dei singoli, e sulla capacità di veicolare un messaggio “colturale e culturale” che abbia a privilegio la terra, che poggia oggi il patrimonio morale e la coscienza critica dell’Oltrepò. Ed è lì che bisogna guardare, per capire un po’ di più il territorio.

E siccome il nome, Oltrepò, non riesce ancora a sdilinquire il cuore degli eno-appassionati, io arrivo a dire che l’anomalia più evidente, dopo tanta strada, dimora in questa inspiegabile misconoscenza e in questo “schifittoso” snobismo, ché quasi sottendono una sostanziale mancanza di curiosità. Perché non te lo spieghi, ecco. Perché l’Oltrepò, in fondo, va ben oltre la didascalia e i luoghi comuni.

Felicemente reduce dalla recente trasferta effettuata in questo triangolo pre-appenninico di Lombardia (è anche un po’ Piemonte e un po’ Emilia), io dico che quel che smuove la meraviglia serpeggia e si annuncia sotto la scorza dell’apparenza e delle strade più battute: sta nei fermenti e nelle anarchiche individualità, nell’energia selvatica dei vini migliori, nelle mani e nella testa di certi vignaioli pensanti. Sta nel paesaggio, capace di rintuzzare in un colpo solo qualsiasi pregiudizio, tanta l’accorata bellezza in grado di profondere per ogni sguardo che sappia guardare. Dalla nervosa vertigine dei vigneti di Canneto, Broni e Stradella alla scenografica eloquenza di Rocca de’ Giorgi, dall’indole evocativa della valle del Versa giù giù fino al quieto conforto spirituale offerto dalle colline attorno a Casteggio.

Sì, sono i vignaioli pensanti d’Oltrepò a rimarginare ferite e a prendersi cura di un’immagine nel nome di un rispetto antico (e autentico) verso la propria terra. Con a riferimento etico e morale il “piccolo grande uomo” Lino Maga e il suo Barbacarlo, si stanno muovendo alla ricerca della migliore qualità possibile, per illuminare a giorno una produzione variegata (a volte fin troppo) che ai vitigni autoctoni come bonarda (croatina), barbera, ughetta e uva rara ci affianca vitigni “foresti” ormai radicati come pinot nero e riesling (italico e renano).

E se la vocazione spumantistica è cosa risaputa e storicamente documentata (quante celebri “casate” regionali ed extraregionali si sono giovate di quelle basi spumante, senza manco poi citarne la reale provenienza!), diffusasi ben prima dell’esplosione di nuovi territori e testimoniata oggi da etichette in grado di coniugare in modo pregevole la dimensione “chirurgica” tipica di una elaborazione spumantistica con il carattere verace e intimamente saporito che è poi la cifra di questo territorio, forse l’unico bemolle potremmo rintracciarlo nell’orizzonte dei bianchi fermi, in genere più morbidi che dinamici, non tanto “mossi” dall’acidità, anche se non mancano eccezioni alla regola.

Ma è nell’universo dei vini rossi che le potenzialità del territorio si sono spinte ben aldilà di una dimensione meramente frizzante e sbarazzina, andando a recuperare la ruggente forza espressiva che chiama a sé struttura, materia, temperamento alcolico, eloquenza fruttata e sprezzature sapido-minerali per fonderle ed armonizzarle in un disegno più accurato e più attento alle ragioni dell’equilibrio.

Ecco, i piccoli ritratti impressionisti che seguiranno sono dedicati ai vini e ai vignaioli pensanti d’Oltrepò. O meglio, ad alcuni di loro. Sono i Maga, i Picchioni, i Verdi, i Pellegrini, i Torti, gli Odero, i Bisi, i Marazzi….

Altri ve ne sono, fortunatamente, e quella sì che è una scusa buona per poter tornare!

Continua…

FERNANDO PARDINI

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