Taccuino francese/1

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Un pied-à-terre in Borgogna

Lunedì 24 agosto

Arrivo nel primo pomeriggio a Marey-lès-Fussey, un villaggio di una settantina di anime. Mi imbatto nella vendemmia a Ladoix-Serrigny, porta d’accesso alla Côte de Beaune. Raccolgono il pinot nero ai piedi della collina di Corton. Vigne basse, cielo aperto, meteo mercuriale.

Sul tardi sono a Beaune, antica residenza dei duchi di Borgogna, tra le mura turrite, le vie del centro, le cantine. E l’emozionante Hôtel-Dieu, meglio conosciuto come Hospices de Beaune, l’antico ospedale della città eretto in stile tardo gotico per volontà del cancelliere Nicolas Rolin nel 1443 (ha mantenuto le sue funzioni per secoli, fino al 1971). Il cortile è una meraviglia: di spaziosa forma rettangolare, ha tetti spioventi policromi con piastrelle smaltate che compongono disegni geometrici, un doppio ordine di finestre mansardate a cuspide, un portico retto da esili pilastri e sormontato da una balconata in legno. In posizione laterale, un pozzo in ferro battuto.

La Grande Sala, o Corsia dei Poveri – coperta da una volta lignea con travi trasversali policrome “vomitate” da teste di drago che si alternano ai volti grotteschi dei borghesi di Beaune e a quelle di alcuni animali simbolici – custodisce una trentina di letti a baldacchino per i malati. Si attraversano altre sale e corsie, l’antica cucina con camino a doppio focolare e la farmacia, prima di arrivare alla sala del Polittico, dove campeggia in tutta la sua magnificenza pittorica il Giudizio universale, capolavoro quattrocentesco del fiammingo Rogier van der Weyden.

Alla sera stappo il Ladoix Clos des Chagnots 2017 Domaine de la Juvinière, di cui so poco, giusto il prospetto della tenuta vista di sfuggita e situata a Corgoloin, dopo l’abitato di Ladoix-Serrigny. Ha un frutto limpido, croccante, una spiccata definizione varietale e una piacevolezza di beva che quasi mi sorprendono per un Village posto sul bordo della D974 e vinificato da una cantina non particolarmente rinomata.

Una settimana a Parigi

Martedì 25 agosto

Arrivo a Parigi nel primo pomeriggio in un bell’appartamento all’interno di un palazzo d’epoca di rue St-Denis, una via talmente lunga da abbracciare due arrondissement, il I e il II, dove risiedo. Sono a due passi dal Beaubourg e a una quindici di minuti dal Louvre, eppure scopro che rue St-Denis è una sorta di bazar metropolitano dove si affolla di tutto (boulangeries, caffetterie, locali etnici di ogni specie, negozi di ogni varietà, spacci alimentari e take away, gallerie e passages, chiese), compreso una lunga fila di locali a luci rossi, sexy e peep shop, alberghi a ore. Diversi i ritrovi LGBTQ+ (acronimo per lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer). Scopro che non solo è una delle più antiche strade di Parigi (ha origini addirittura romane, il nome si deve alla direzione che porta a St-Denis, uno dei luoghi di culto più importanti della capitale e uno dei capolavori del gotico francese), ma che dal Medioevo ai nostri giorni è nota per essere un luogo di prostituzione. Di notte si alzano schiamazzi.

In questo concentrato di contrasti da una parte c’è rue de la Grande-Truanderie, la “corte dei miracoli” che fino all’epoca di Luigi XIV affollava questa via di personaggi poco raccomandabili, dall’altra St-Nicolas-des-Champs, al cui interno le nervature gotiche sulle navate laterali sono come fasci di tendini tesi che poggiano su impreviste colonne doriche. Il gotico a Parigi non è solo Notre-Dame o la Sainte-Chapelle. Parigi, e con lei tutta l’Île-de-France, è impregnata, intessuta di gotico. Poco lontano da St-Nicolas-des-Champs, ad esempio, emerge dal Forum des Halles, l’ex ventre di Parigi ai tempi di Émile Zola e oggi vasta zona pedonale che sorge sull’area degli ex mercati generali, la monumentale St-Eustache, una delle più belle chiese di Parigi, gotica nell’ossatura, rinascimentale nella decorazione.

Il gotico a Parigi è anche contaminazione, commistione, sia architettonica sia urbana, simbolo della fusione metropolitana tra antico e moderno. Ancora qui vicino, in place Georges-Pompidou, le statue meccaniche e i giochi d’acqua della fontana degli Automi o fontana Stravinski (dedicata al compositore russo Igor Stravinski) convivono con la chiesa di St-Merri, che conserva la più antica campana della città (1331) ed è uno dei migliori esempi di trasformazione barocca di un monumento gotico.

Mercoledì 26 agosto

Alle sette del mattino il quartiere è ancora mezzo deserto. Esco a prendere croissant e baguette in boulangerie. Lo farò ogni giorno, in posti diversi. Non tutti i croissant che compro assomigliano al ricordo che ne avevo: il cornetto allungato, dolce-salato. Manco da sei anni, al tempo ero al Quartiere Latino, forse qualcosa è cambiato. Ma sono indubbiamente buoni. Non tutti allo stesso modo, beninteso. Il migliore in zona, e il più caro, è quello che si trova presso i French Bastards – Les Boulangers al civico 181 di rue St-Denis, un luogo dall’aria alla moda ma con il suo laboratorio, dal motto provocatorio (Boulangerie. Pâtisserie. Maison Fondée Hier), che sforna cose davvero buone.

Alle dieci e mezza sono davanti alla Tour Eiffel, soggiogato dalla mole slanciata e dall’imponenza dei poderosi archi alla base, che scaricano a terra il peso delle sue 7000 tonnellate. Non so dire se sia realmente bella (in passato scrittori come Zola e Maupassant si scagliarono violentemente contro di lei, partecipando al manifesto Trois cents, in cui la torre venne definita inutile e mostruosa, perfino odiosa), ma è senz’altro un capolavoro, se non di architettura, quantomeno di ingegneria. È diventata un’icona, è il simbolo di Parigi ed è il monumento più visitato al mondo. Svetta sulla capitale come nessun altro edificio cittadino. Nessuna coda all’ingresso, fatto epocale, e speriamo irrepetibile. Al terzo piano (276,13 metri sui 300,65 totali), dove c’è anche un “bar à champagne” di chiara vocazione turistica, si gode, quasi inutile dirlo, di un panorama mozzafiato quanto miniaturizzato della città: è d’uopo aver con sé un cannocchiale.

Il prospiciente Trocadero, con i suoi volumi scenografici ed eclettici, mi lascia indifferente. Più stimolante la crociera sulla Senna a bordo di uno dei bateaux mouches ormeggiati sulla riva. L’ultimo tratto permette di inquadrare al meglio le due isole fluviali di Parigi: l’Île de la Cité, che divide il I dal IV arrondissement, con i suoi nove ponti – il più antico dei quali è, a dispetto del nome, il celebre Pont Neuf – che la collegano alle due rive della capitale, e la più piccola Île Saint-Louis.

Giovedì 27 agosto

Il Louvre. Senza code. Una magia, una chimera, un sogno. Un effetto del COVID-19. I contagi si stanno allargando a macchia d’olio nella capitale. Parigi è in allarme, Parigi è zona rossa. C’è l’obbligo della mascherina anche all’aperto. Dall’Italia rimbalza la notizia che bisognerà probabilmente fare un tampone al rientro, ma non succederà nulla di tutto questo.

La Pyramide di Ieoh Ming Pei in vetro, acciaio e alluminio è semideserta. Il Louvre, il meraviglioso Louvre – inteso come il palazzo, non il museo, un palazzo che è in realtà una meravigliosa reggia dalle imponenti ali simmetriche – ha oggi qualcosa di surreale, di sospeso.

La Piramide sembra una bolla solitaria di diafane trasparenze. Il meteo è ondivago, nuvole bianche e scure velano l’azzurro del cielo.

Dentro, il museo, la cui sterminata collezione corre dall’antica Mesopotamia alla pittura dell’Ottocento, offre un catalogo infinito di visioni e suggestioni. Mi limiterò a qualche fugace nota. Al posato, apollineo ancheggiamento della Venere di Milo preferisco l’incedere slanciato, l’apertura alare, le vesti increspate dal vento della Nike di Samotracia.

Il Cristo alla colonna di Antonello da Messina è un unicum nella storia dell’arte: nessuno ha dipinto come Antonello la notte oscura di Cristo, i suoi dubbi, le sue paure, il suo terrore. “Dio mio, dio mio perché mi hai abbandonato?”: e se lassù non ci fosse un Padre ad attenderlo?

Il Ritratto di vecchio del Ghirlandaio è a dir poco commovente. Il Cristo e l’adultera di Lorenzo Lotto ha una dimensione scenica e psicologica (attraverso le azioni delle mani e l’espressione dei volti, il pittore delinea le reazioni di tutti gli astanti di fronte allo scandalo rappresentato dal personaggio femminile) che ha pochi eguali.

La Pietà di Rosso Fiorentino, dipinto in Francia, è di un decadentismo ante litteram che sorprende: c’è dentro, in nuce, l’art nouveau e il maledettismo di Franz von Stuck. Nel Ritratto di uomo del Tintoretto, che era un magnifico ritrattista, l’occhio tumido con la lacrima che sta per scendere e che gonfia la cornea è impossibile da catturare per l’ottica del mio iPhone. Forse ci riuscirebbe il teleobiettivo Canon della reflex, ma non l’ho qui con me.

Il drammatico notturno della Deposizione di Jacopo da Bassano è uno dei quadri più sottovalutati del Cinquecento italiano. Imperdibile l’abbinamento tra la Madonna del coniglio di Tiziano (sotto) e la bella copia di Eduard Manet (sopra). Tra i capolavori di Leonardo, il più stupefacente, e il meno considerato, è la Belle Ferronnière: ah, quelle gote che arrossiscono per l’imbarazzo; ah, le labbra che sembrano appena ritoccate di rossetto; ah, quell’espressione tra l’imbronciato e il pudico; ah, il miracolo di una pittura che sembra donare il respiro alle sue figure!

E la Gioconda? È possibile, mi chiedo da sempre, poter guardare ancora la Gioconda con occhio limpido, scevro dai condizionamenti e dalle riproduzioni (maledetto Warhol!), che si sono sovrapposti e stratificati nel nostro cervello? È possibile poi vedere realmente Monna Lisa stando obbligatoriamente a cinque metri di distanza, senza poter godere da vicino lo sfumato di Leonardo, il mistero e la grazia della sua pittura?

La Gioconda è l’unico quadro al mondo tenuto a distanza di sicurezza e dotato di transenne d’aeroporto per disciplinare le code. Oggi però non c’è quasi nessuno a inseguirla con lo sguardo, a cercare di carpire il segreto del suo sorriso, a fotografarla, ad accusare svenevolezze turistiche da sindrome di Stendhal.

Continua….

Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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