Raboso Gelsaia, una verticale a distanza

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«Sento la sofferenza della pianta nel produrre questi grappoli. La vedo».
Giorgio Cecchetto

Una volta si diceva che per berlo bisognava essere in tre: il primo convinceva il secondo a farlo e il terzo lo doveva poi sorreggere, manco fosse una colluttazione. Stiamo parlando del Raboso del Piave, uno dei rossi più irriducibili mai concepiti dalla sterminata famiglia degli autoctoni italiani. L’etimo del resto non mente: il nome deriva dalla parola dialettale “rabioso” (o “rabiosa”, al femminile) e non c’è bisogno di aggiungere altro. La terra d’elezione di questo rosso di ferocia acido-tannica sono le piane alluvionali del Piave, in provincia di Treviso, ma la sua coltivazione è andata progressivamente diminuendo a favore di varietà più facili e commerciali, dagli internazionali all’ormai onnipresente glera (leggi Prosecco): dai 7000 e rotti ettari degli anni settanta l’estensione vitata del raboso del Piave (da non confondere con quello veronese, anche se il disciplinare della denominazione ne permette l’utilizzo) si è ridotta ai 700 e rotti attuali.

Negli ultimi venticinque anni Giorgio Cecchetto, uno dei suoi più sensibili interpreti, non ha mai smesso di ascoltarlo, interrogarlo, comprenderlo attraverso continue ricerche (anche con la collaborazione di istituti universitari), sperimentazioni, vinificazioni, maturazioni, versioni: dallo spumante al passito, dal rosso tradizionale a quello, più moderno, prodotto con il ricorso all’appassimento per smussare le asperità più riottose di questo vitigno selvaggio e potente.

Ma non chiamatelo Amarone del Piave. Il Piave Malanotte – come, dal 2011, si chiama la Docg che prevede un appassimento delle uve da un minimo del 15% a un massimo del 30% (il nome deriva dal medievale Borgo Malanotte di Tezze di Piave) – è un altro tipo di vino. Soprattutto lo è il Gelsaia di Giorgio Cecchetto, che rappresenta la storia di una passione (quella del produttore, che ha sempre tentato di affrancarlo da una pessima nomea), di un’identità (il nome è un omaggio alle vecchie bellussere del territorio che avevano i gelsi come tutori vivi) e di un’evoluzione di pensiero e tecniche di produzione, tanto in vigna quanto in cantina (quella di Giorgio si trova a Vazzola, una frazione di Tezze di Piave, nel cuore della denominazione). Dal 2013 il Gelsaia viene prodotto da un vecchio Sylvoz di sessant’anni d’età a Mareno di Piave, il “Villa Paoletti”, chiamato così per la presenza di una villa veneziana. È dislocato su tre ettari e mezzo con terreni di origine alluvionale, suoli argilloso-limosi dai depositi ghiaiosi lasciati dalle piene del Piave. Entra nell’ossatura del Gelsaia a partire dall’annata 2013. E prima? Ci racconta la storia di questo rosso lo stesso Cecchetto in un’appassionante verticale (a distanza).

Piave Raboso Gelsaia 2017

«Dopo quindici anni di cure, di cui dieci con le potature di Simonit e Sirch, abbiamo recuperato e portato a regime questo vecchio vigneto a Mareno di Piave, dandogli forma e soprattutto la giusta distribuzione dei grappoli per una maturazione ottimale. Lo volevano estirpare, lo abbiamo salvato. È un vigneto che abbiamo in affitto da molti anni. Tra pochi anni sarà il più vecchio della provincia di Treviso. Ospita una selezione massale di diversi biotipi di raboso. Lo vendemmiamo in genere tra la fine di ottobre (mai comunque prima della metà) e gli inizi di novembre con due o tre passaggi manuali. Il raboso è uno dei primi a germogliare e uno degli ultimi a essere raccolto. Il 2017 ha avuto un decorso autunnale molto asciutto. In quest’annata non abbiamo fatto appassimento, aveva un frutto pazzesco già durante la fermentazione, che si è spenta naturalmente lasciando 15 grammi di zuccheri residui. Il disciplinare ne prevede al massimo 8, quindi è fuori dalla Docg. La natura me l’ha dato così, me lo tengo così».

Fermentazione spontanea in acciaio, un anno e mezzo in barrique nuove e usate, malolattica parzialmente svolta. Ha colore porpora fitto e un olfatto intenso di prugna, visciola, pini selvatici. Il palato è denso, felpato, al contempo solido e tenerissimo, una grazia tattile succosa e invitante, un frutto maturo da addentare con una struttura tannica fitta, vigorosa, dolcissima, una componente spiccata di uva selvatica, uno sviluppo lungo, morbido-contrastato.

Piave Malanotte Gelsaia 2016

«Qui è stato usato l’appassimento, come facciamo sempre e come richiede il disciplinare. C’è un primo passaggio in vigna per eliminare i grappoli ammaccati e affastellati. Poi, quindici giorni prima della vendemmia, raccogliamo le uve per l’appassimento, circa un 15% del totale: avviene in fruttaio su graticci e cassette in legno per circa quaranta/quarantacinque giorni. Lo lasciamo correre per i primi quindici, finché il raspo si secca, diventando marrone, quindi spegniamo tutto e lasciamo un decorso naturale: più è lento e meglio sarà per il vino. Il terzo passaggio è la vendemmia vera e propria, qui avvenuta il 6 novembre».

Le due parti – naturale e passita – vengono vinificate e maturate separatamente per essere assemblate prima dell’imbottigliamento. Colore porpora fitto, squillante frutto selvatico-candito al naso, con note di marasca e ciliegia. Palato denso, felpato, dal tannino copioso e capillare, dal legno integrato, dallo sviluppo sciolto e continuo, con picco acido finale che dona contrasto e persistenza. Maturo, risolto, ancora giovane. I sei grammi di zucchero residuo passano inosservati.

Piave Malanotte Gelsaia 2013

«Annata calda, autunno caldo. Si decide tutto lì, in autunno. E gli autunni lunghi e caldi con poca acqua sono determinanti. Altrimenti uscirà un vino tronco, non perfettamente maturo. Fino al 2013 abbiamo usato un salasso sul 10% della massa per fare il Rosabruna, il nostro metodo classico. Nelle ultime annate c’era troppa concentrazione per farlo. Vendemmia a fine ottobre. Dieci giorni prima abbiamo raccolto la partita per l’appassimento».

Colore porpora fitto. Naso meno aperto, meno espresso, rugginoso, silente. «Stress da maturazione della pianta e un legno non preciso». Palato notevole per veracità e frontalità. Ecco l’acidità del Raboso, la sua rabbia, la sua ferocia. «Tirato fuori dalla barrique e imbottigliato. Nessuna chiarifica e nessuna filtrazione. Non mediamo mai con tagli di annate precedenti. Deve essere il frutto dell’anno, della stagione».

Piave Malanotte Gelsaia 2011

Da questa annata in poi (o in giù, se preferite, ci stiamo muovendo a ritroso nel tempo) entrano nel Gelsaia anche le uve del vigneto di Motta di Livenza, un Sylvoz di una ventina d’anni dalle terre argillose, meno alluvionali, più pesanti. «Su questi terreni vengono fuori meno i profumi, ma c’è più struttura. Sulla longevità non c’è una grande differenza. I terreni alluvionali mantengono la dimensione acida e minerale. È questo il terreno ideale, sia esso limoso, ghiaioso, ciottoloso o argilloso. La parte storica è a ridosso del fiume».

Colore porpora fitto e grande ariosità olfattiva tra note officinali, medicinali, erbacee, balsamiche: menta, sottobosco, visciole selvatiche. Palato molto succoso quanto tonico, felpato e teso, maturo e fresco, tannino che spinge, che scioltezza, che ritmo! La potenza associata alla dinamica interna. Molto persistente. Che acidità!

«Bella annata con anticipo di germogliamento. Nel 2011 le piante non hanno subito stress. Tutte le annate hanno un’acidità media sopra i 7,5 grammi/litro e un estratto secco sopra i 34».

Piave Malanotte Gelsaia 2009

«Prima annata della Docg Malanotte. Germogliamento tardivo, annata più fresca. E più barrique nuove».

Colore porpora con sfumature granato. «Il terreno di Motta scarica il colore». Naso dal frutto selvatico e candito, con note di marasca e sentori balsamici. Palato dai freschi toni erbacei, succoso e tonico, di notevole spinta gustativa, dal contrasto acido, con allungo persistente e penetrante di taglio sapido-minerale.

Piave Raboso Gelsaia 2007

«Estate calda, fioritura anticipata, uva molto matura, appassimento prolungato, quarantacinque/sessanta giorni».

Colore porpora dai bordi granato. Sulle prime il naso stenta, come già quello del 2013, vira all’asfalto, all’asciutto, poi via via (ma bisogna aspettare quasi un giorno, il consiglio è di scaraffarlo non appena aperto) esce con toni di prugna, frutta rossa candita, cioccolato, spezie. Palato più espressivo e risolto, balsamico, ricco, maturo, polposo, con una concentrazione maggiore dovuta all’intensità dell’appassimento. Ma l’acidità tagliente del raboso lo tiene su, come sempre. Bell’allungo, comunque, c’è una persistenza ghiaiosa, un finale dal sapore minerale.

«Si sente l’annata asciutta, ma anche la mano di Franco Bernabei, come nel 2005. Si cercava la concentrazione, non l’acidità. È un vino prodotto con inesperienza».

Piave Raboso Gelsaia 2005

Porpora con sfumature granato, un po’ di volatile e alcune tostature rendono l’olfatto poco reattivo e caratteristico. Palato molto alcolico, con un tannino feroce ma asciutto, e un fondo ammandorlato nel finale.

«Annata fresca. Da qui in poi c’è anche una botte da trenta ettolitri oltre alle barrique nuove e vecchie. Due anni di legno, maggiore permanenza. Macerazioni più lunghe. Non lo riconosco mio fino in fondo. La mano di Bernabei si sente. È un vino po’ disarmonico, squilibrato».

Piave Raboso Gelsaia 2003

«Annata africana. Qui abbiamo applicato la doppia maturazione ragionata, con il taglio del tralcio su una parte, che poi abbiamo abbandonato perché l’acqua si perde velocemente e si concentra molto lo zucchero. Il frutto viene conservato, perché non è un appassimento vero e proprio, ma una concentrazione aromatica. È una tecnica che consiglio per vini che hanno bisogno di concentrare gli acidi tartarici e malici. Va bene solo nelle annate molto calde. L’appassimento è durato una quarantina di giorni per una percentuale superiore al 35%. Maturazione sempre in botte grande più barrique nuove e usate».

Che espressione, che carattere! Profumi di marasca e amarena, toni officinali e balsamici, un’eleganza quasi bordolese che si fa largo tra note selvatiche di macchia mediterranea e sottobosco. Cangiante, arioso, fresco, con un palato succoso, tonico, molto contrastato, decisamente minerale nel sapore, con un tannino che, come sempre, emerge, disegna e grafitica, alcolicità importante quanto integrata, finale pieno di energia e vigore.

«Ero nel pieno della grande sfida. Ci sono voluti vent’anni per venirne fuori e non so ancora se ne sono uscito. Ho collaborato per anni con istituti di ricerca universitari per studiare i fenomeni legati al Raboso e renderli replicabili: la doppia maturazione, gli appassimenti, i legni. Nulla deve essere lasciato al caso. Altrimenti dopo dieci, quindici anni ti ritrovi un vino che ha segnato il passo».

Piave Raboso 1997

«Il 1997 è stato un anno spartiacque perché ho cominciato l’appassimento delle uve. Tutto nasce l’anno prima con delle microvinificazioni su delle piccole partite di autoctoni compiute dalla Masi. Mi convincono a provare con il raboso. Compro un deumidificatore in una latteria di Bassano e metto le uve sulle cassette. Al Vinitaly del 1997 la Masi presenta il progetto degli autoctoni appassiti. Nella degustazione il Raboso non risultò il migliore, era ancora troppo spigoloso, ma destò più di una curiosità. Io che invece conoscevo la bestia pensai che era stato un po’ domato e da lì ho cominciato a concepirlo con le uve fatte appassire. In quell’anno faccio un appassimento sul 50% della massa e usciamo nel 2000 con Gelsaia 1997. È stato uno spartiacque. Tutti i produttori si sono messi in discussione. Quale Raboso, tradizionale o appassito? Anche Gino Veronelli scrisse un pezzo, uscito nella domenica del Vinitaly, sul Raboso fascinosa realtà delle terre del Piave. Era stato sdoganato, non aveva più bisogno dei sottotitoli. Il mio pensiero era di produrre un grande vino di territorio da una grande vigna. A quel tempo si parlava solo d’internazionali e Super Tuscan, il Raboso era un vino di serie B. Ho tenuto duro, perché avevo dentro di me il senso, il valore della tradizione. È stata la famiglia a trasmettermelo, la nostra storia, il nostro vissuto, la sofferenza, tutto. Eravamo dei mezzadri, la metà della nostra produzione andava alla cantina sociale. Con l’altra metà dovevamo sopravvivere per un anno, non abbiamo mai buttato, denigrato, calpestato nulla».

Non c’è il Gelsaia in assaggio ma il Piave Raboso. Ha colore granato-mattone e un registro fascinosamente evoluto, terroso, con un’acidità ancora spiccata e una persistenza selvatica, congenita, indomita.

Piave Raboso Gelsaia 1994

«Il primo anno della Doc. Ho costruito una prima parte di cantina, comprato da Carpenè Malvolti tre botti usate da 22 ettolitri. E dentro ho vinificato il Raboso. Nel 1997, la commissione della Camera di Commercio, dandomi l’idoneità, mi ha fatto i complimenti perché erano anni che nessuno assaggiava un Raboso Doc. Usciva da una vecchia bellussera con i gelsi che avevamo. Senza appassimento, senza malolattica, con una macerazione breve. Tre e passa anni in botte. Tremila bottiglie».

Colore rubino-granato, carattere ferroso, bocca succosa, dritta, spoglia, artigianale, di bellissima acidità, con tratto officinale, coda balsamica, di struggente bontà.

«Fatto con una vigna e un po’ di cuore. Qui ritrovo la schiettezza del vino, le sue caratteristiche primordiali, il profumo della botte».

Il palato è un palpitare di energie.

«Produrre Raboso è un atto d’amore verso un vitigno secolare che possiamo tramandare nella sua integrità alle generazioni future. Ci sono voluti più di vent’anni per arrivare a un vigneto concepito per produrre il Raboso di un tempo con le conoscenze di oggi. Il vino di una volta oggi non lo berrebbe nessuno, questo è un vino moderno ma non snaturato, frutto dell’empatia».

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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