Nudi e crudi, lungo la via Emilia

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Effervescenza:
grande, e talora eccessiva, vitalità;
ebollizione, esuberanza, euforia;
brio, dinamicità, dinamismo, verve, vitalità, vivacità;
agitazione, ebollizione, eccitazione, fermento, orgasmo.
(Vocabolario Treccani, Sinonimi e Contrari)

Effervescente:
frizzante;
esuberante, euforico;
pimpante, scintillante, spumeggiante;
prorompente;
brioso, dinamico, vivace.
(Vocabolario Treccani, Sinonimi e Contrari)


Li chiamano in molti modi – sui lieviti, sur lie o surlì, col fondo o con il fondo, integrali, ancestrali – ma sono tutti vini frizzanti rifermentati in bottiglia, i più puri dei quali, e sono ormai la quasi totalità, senza sboccatura o sfecciatura (almeno per i rossi, anche a costo di incorrere in qualche riduzione non necessariamente negativa, mentre nei bianchi è più rara). La specifica “in bottiglia” è determinante, perché segna una distanza siderale – in termini di espressione e longevità – rispetto ai frizzanti prodotti in autoclave (e le eccezioni, come i Lambrusco di Tenuta Pederzana o Fattoria Moretto, confermano la regola).

I rifermentati in bottiglia rappresentano una tradizione rurale ormai secolare, benché nel loro periodo più buio e critico, tutt’altro che breve (vogliamo dire, restringendo il campo, dagli anni Ottanta al primo decennio del nuovo millennio?), quando furoreggiava il boom progressista delle autoclavi e questi vini con i colori torbidi e con un fondo che non ti permetteva di bere gli ultimi bicchieri in grazia di Dio, non li voleva più nessuno (osti, ristoratori, pubblico), perché erano “ignoranti” e “puzzavano”, siano stati in pochi, anzi in pochissimi, a continuare a crederci, tramandando l’arte di famiglia e mantenendo strenuamente la barra a dritta nonostante tutto il mondo li accusasse di essere dei dinosauri che si ostinavano a rifiutare le “magnifiche sorti e progressive” della tecnologia, continuando a produrre vini obsoleti (e non è facile andare contro il mondo): Lino Maga, Loris Follador, Vittorio Graziano, Camillo Donati, Massimiliano Croci, giusto per fare nomi e cognomi.

Sono vini che accorciano più di ogni altro il passaggio di trasformazione dalla vigna alla bottiglia. Si raccolgono le migliori uve, che devono essere perfette per integrità, sanità e maturazione, se ne avvia la fermentazione (spesso spontanea), si lascia la base a riposare fino alla primavera successiva alla vendemmia (talvolta anche meno) e poi si imbottiglia il vino per far ripartire la seconda fermentazione (spesso con aggiunta di mosto), tappandolo (sempre più spesso con tappo a corona) senza più toccarlo, muoverlo, condurlo, aggiustarlo fino al momento in cui verrà aperto per essere consumato (e potrebbe trascorrere degli anni, giacché questi frizzanti hanno una longevità insospettata, che dura dei decenni).

Sono vini spontanei, imprevedibili, dinamici, vivi.
Sono vini che devono essere velati, perché la velatura del colore, che non toglie brillantezza, è parte costitutiva, fisiologica del loro naturale processo di produzione e dunque sintomo di genuinità.
Sono i grandi vini popolari del nostro tempo per bevibilità, abbinabilità, durabilità, economicità (se ne possono comprare alcuni cartoni senza svenarsi).
Sono vini integrali, senza maquillage, nudi e crudi, puri.

Spigolature d’assaggio lungo la via Emilia

Piacentino

Il Colli Piacentini Ortrugo Cianô di Lodovica e Martina Lusenti (Vicobarone, Val Tidone) è l’esatto contrario dell’ariosa aromaticità dell’Emiliana (malvasia di Candia aromatica, di cui non si magnificheranno mai abbastanza le virtù). Un bianco dai profumi freschi, floreali, agrumati scandito da una carbonica pimpante e da un insinuante sapore di crosta di pane. È un vino che Lodovica ha dedicato al padre Gaetano, detto Nino, ma che la moglie chiamava sempre Cianô, in dialetto “tesoro”, “amore”, “gioia”. Glielo diceva mentre lo abbracciava, quando lui tornava a casa stanco dopo una lunga giornata di lavoro. Lodovica lo chiamava invece Pistamota, perché il padre aveva l’abitudine di entrare in casa con gli stivaloni sporchi di fango. Gli ha dedicato un altro vino, un passito di uve croatina.

Il Monterosso Val d’Arda Campedello di Massimiliano Croci – uvaggio dal colore dorato brillante di malvasia di Candia aromatica al 60% (sempre lei, irresistibile), ortrugo e trebbiano per il 35%, con un saldo finale del 5% di vecchie viti di sauvignon e marsanne – è una spuma di panettone, un’eco aromatica, un fragranza floreale, un’effervescenza gagliarda. Il nome della vigna, Campedello, deriva da quello di “campidoglio”, ovvero promontorio. Vinificato in cemento con macerazione di una dozzina di giorni. Il Gutturnio 2017, escluso della denominazione di origine per motivi che risulta difficile comprendere, è uno dei migliori mai prodotti da Massimiliano. Uvaggio di barbera e bonarda (croatina) quasi alla pari, con un paio di settimane di macerazione e frequenti rimontaggi, conquista per una rifermentazione perfetta, che sposa le sue congenite carburazioni con uno squillante, intatto, succoso frutto scuro (mora) dal tannino elettivo. Siamo in località Monterosso, a Castell’Arquato, in Val d’Arda.

Reggiano

Il Trebbiano 2016, in realtà trebbiano romagnolo e spergola uniti alla pari, che Stefano Pescarmona produce sui terreni alluvionali di Podere Magia, nel comprensorio di San Polo d’Enza, ha un colore paglierino intenso, quasi dorato, profuma di frumento e grano, di fiori gialli e rusticità, ha una carbonica vivissima e spensierata, un palato verace, gastronomico. Non meno artigianale nella forma e rurale nella sostanza il suo Lambrusco, Maestri in purezza. Il 2016 sprigiona la massicciata e la mora, il vinile e il goudron, sposa appieno la natura selvatica e riottosa del Lambrusco più anarchico, quello reggiano, in una varietà che si preferisce unire ad altre anziché vinificarla in purezza. Il 2015 appare non meno irriverente e gagliardo, è scalpitante, maturo, prorompente, deciso a farti sentire le sue carburazioni e il suo tannino in una grintosa morsa gustativa. Il 2013 ricalca l’orma del 2016: puntuto, rustico, con carburazioni radicali e riduzioni minerali, principi di massicciata, elementi selvatici di sottobosco. Stefano è, tra le altre cose, specializzato in agro-ecologia e biodinamica. Oltre alla consulenza nel campo, da vent’anni si occupa di formazione per orti didattici, orticoltura ecologica, agricoltura sociale.

Modenese

Pochi lo conoscono come Vincenzo Venturelli, ma tutti sanno chi è il Prof. Ex professore di matematica alle superiori, amanti dei cani da caccia, delle vacche da latte e di Bach, aria sorniona, eloquio tranchant, finto dilettante che nasconde dentro di sé il demone della perfezione, è diventato un produttore di culto, anche se lui ovviamente si guarda bene dal riconoscerlo. Il suo Trebbiano di Spagna, rigorosamente senza etichetta come tutti i suoi vini (che riportano sul nudo vetro delle abbreviazioni scritte con un pennarello bianco), è un vino spiazzante, perché nessuno si aspetterebbe un tale colore (giallo acceso e vivo, e non è macerato) e una tale espressione (panettone, cedro, menta, agrume) da un Trebbiano. Ma questo non è un Trebbiano come gli altri, perché il suo vitigno, chiamato ufficialmente trebbianina, ormai quasi abbandonato (sopravvive per la produzione del mosto cotto per l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena), genera bianchi fragranti e penetranti. Questo 2016 ha tutta l’aria di rientrare tra i grandi millesimi della sua storia recente. La sua longevità è sorprendente. Il vino più famoso del Prof è il Lambrusco di Sorbara, che produce in versione frizzante e metodo classico, che si distinguono a prima vista solo per l’imbottigliamento con tappo a corona (il primo) e sughero a fungo (il secondo). Di recente ho fatto saltare quest’ultimo tappo, che però non appartiene alla tipologia dei vini cui è dedicato questo pezzo. Mi limiterò dunque a parlare della sua carbonica. Anzi, ve la lascio immaginare. Un soffio.

Un altro vino entrato nell’immaginario collettivo dei grandi e imprescindibili frizzanti rifermentati in bottiglia è senza alcuna ombra di dubbio il Fontana dei Boschi di Vittorio Graziano, produttore scanzonato, schietto e anarchico, scapolo impenitente, vignaiolo verace, che dall’inizio degli anni Ottanta vinifica sulla collina di Castelvetro dopo aver fatto il camionista, l’imbianchino e l’idraulico. La vigna del Fontana dei Boschi, il cui nome è tutto un programma, è occupata per l’80% dal lambrusco grasparossa, insieme a una serie di altre varietà lambrusche (Maestri, lambrusco di Fiorano, Benetti) più altri vitigni non ancora identificati. Le vigne più vecchie hanno una quarantina d’anni (alcune vecchie marze sono state recuperate da un pergolato di fine Ottocento), gli impianti più giovani risalgono al 1999. Il terreno è un impasto di argilla, limo, sabbia, minerali scuri e materiali ferrosi. Proprio questi due ultimi elementi sono le prime sensazioni che in genere si percepiscono mettendo il naso dentro il bicchiere del Fontana dei Boschi, ma questo 2017 libera una sinfonia di sentori fruttati (mora, amarena, ribes, ciliegia), un’invitante, irresistibile, appagante succosità, un tannino al contempo cremoso e incisivo, un incedere armonioso e ruggente.

Più giù, alle pendici della collina di Castelvetro, sull’“altopiano” di Castelnuovo Rangone, Claudio Plessi, un altro ex professore (di scienze agrarie) in pensione, coltiva nella sua vigna di tre ettari e mezzo lambita dal torrente Tiepido, a cui ha dedicato uno dei suoi Lambrusco, una sorta di vivaio naturale di antiche varietà in via di estinzione, come l’uva tosca, la spergola, il grappello, il lambrusco di Fiorano o lambruscone, l’alionza, l’occhio di gatta, l’uva ciocca, la forcella, la piccola nera, il festasio, la sgavetta. C’è anche l’uva ruggine, un autoctono modenese ormai pressoché scomparso, da cui nasce il Ruzninteina. Il 2015 ha color paglia, sentori di grano, cereali, canditi, con un palato maturo, cremoso, solleticante, dal gusto antico. Plessi produce anche uno dei pochissimi Trebbiano di Spagna in circolazione, chiamato Tarbianein. Il 2017 ha colore acceso, profumi di campagne in fiore, di spighe di grano, di camomilla, di panettone, di sentori semi-aromatici, un’effervescenza pimpante, un contrasto d’agrume, una persistenza permeante.

To be continued…

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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