Il vecchio Saggio del Roero

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Dal diario di un anonimo viaggiatore in terra roerina…

Girai a lungo per quelle strade e quelle vigne che si alternavano a boschi, in cui svettavano ancora i pini originari. Tante vigne ma anche tanti alberi da frutto, tra cui il pesco, vanto dell’odierna agricoltura locale insieme alla fragola. Coltivazioni volute dall’uomo in un susseguirsi di epoche storiche di cui, a volte, si è persa la memoria. Forse i primi uomini roerini assistettero direttamente al cataclisma geologico che modificò drasticamente la struttura di un pianoro in cui le sabbie di un antico mare erano andate a depositarsi con i resti delle piccole e grandi creature che lo avevano abitato. Il fondale emerse, con le sue marne e le sue sabbie pressate, dopo Le Langhe, ma il fiume Tanaro che lo attraversava, decise di cambiare percorso e si riversò nella valle che si era aperta tra la pianura che si estendeva verso le Alpi e le colline degradanti che si spingevano verso il Mar Ligure.

Forse, proprio in quel momento nacque il vero Roero, quel fantastico groviglio geologico che creò le Rocche, resti impietriti ed erosi del crollo della pianura che il Tanaro trascino con sè. Depositi più antichi si mescolarono a strati più recenti, dando caratteristiche uniche a un suolo che quasi invitava con la sua straordinaria varietà ad essere accudito dalle popolazioni che lo abitavano. Liguri, Etruschi, sicuramente, ma poi soprattutto Romani che costruirono strade, villaggi, città, navigarono lungo il fiume e fecero dell’antica Alba un porto di grande importanza. Essi, soprattutto, capirono le grandi potenzialità e si dedicarono con passione e grande intuito commerciale alla coltura regina per un tale territorio: la produzione di un vino che già da allora non poteva non avvolgere con i suoi profumi accattivanti, perfetta sintesi di diverse età della roccia in cui le radici cercavano di farsi strada.

L’uva si trasformava in nobili e attraenti “signore”, in cerca di raffinatezza e continue variazioni, sicuramente ammaliatrici e ammalianti. Chiedete ai seri, rigidi “nobiluomini” del Barbaresco e del Barolo, forse un poco invidiosi di tanti sottili sfumature e di tale apparente leggerezza.

Poi fu medioevo, schiavitù e ricchezza, a volte fortuna, ma più spesso fame e povertà. E così via in un susseguirsi di alti e bassi fino alla riscoperta dei nostri giorni.

Ma io volevo qualcosa di più, qualcosa di detto o, meglio sussurrato, da chi aveva vissuto realmente quei periodi. Ho vagato tra vecchie cascine sentendo storie e leggende dei più anziani, ho sentito parole umili, sincere, ma anche drammatiche sull’assalto della filossera, un “regalo” venuto da altri mondi che aveva messo in ginocchio una cultura che secolare è dir poco. Pesche per sopravvivere, in attesa di un ritorno dell’uva e del vino? Forse… tuttavia, i ricordi e le tradizioni passate di padre in figlio o, ancor meglio, di nonno in nipote (gli estremi del ciclo della vita sono sempre i più vicini) spesso discordavano, si perdevano in vaghe memorie tramandate e travisate secondo le proprie realtà vissute. Ne usciva un quadro confuso, che si perdeva in mille rivoli andando indietro solo di poche generazioni.

Come poter tenere tutti i fili uniti e non cadere in nodi inestricabili? Non è difficile reperire libri, saggi, articoli che descrivono la travagliata storia del Roero e il suo odierno rilancio. Ma essi, come spesso accade, si basano su documenti, su cronache soggettive, che rispondono a chi deteneva il potere in quei giorni; le schermaglie o le guerre vengono travisate o addirittura ribaltate. No, non era quella la verità che cercavo, volevo qualcosa di veramente oggettivo che andasse a fondo dei sentimenti delle popolazioni che avevano attraversato periodi storici più o meno intricati. Volevo sapere come realmente le culture si erano adattate alla vita di chi lottava per sopravvivere e per far sopravvivere. Sì, il vino aveva avuto sicuramente un ruolo importante in vari frangenti, ma aveva anche subito alti e bassi, aveva causato gioie e dolori dovuti ai Signori del territorio, alle condizioni climatiche, alle angherie deprimenti o alle speranze portatrici di forza e di riscatto, alle pestilenze, agli abbandoni e ai ritorni.

No, nessuno era in grado di darmi quelle informazioni, le uniche che mi avrebbero fatto veramente capire l’anima profonda di questa gente e di come aveva saputo convivere con un territorio così ricco, in parte misterioso, a volte apparentemente maligno, a volte splendente nelle sue unicità più profonde. Gente che aveva condiviso con la Natura l’essenza più profonda, lontana da imposizioni mentali esterne, da parole fatue e falsità sempre interessate. Una popolazione che aveva saputo ascoltare e capire i sibili del vento, il battito incessante della pioggia, il crepitio dispettoso della grandine, la soffice coperta della neve. Uomini e donne che avevano saputo assecondare i ritmi della Natura, che sapevano ancora ammirare i fiori, la frutta, gli animali e soprattutto i grandi vecchi, gli alberi che pur immobili erano gli unici veri, umili e sinceri, testimoni del tempo che scorreva senza scalfirli più di tanto.

Così pensavo, mentre percorrevo un sentiero che scendeva in un bosco abitato da grandi castagni, da querce, da pochi pini primigeni, ma anche da tanti rovi invadenti e da robinie che simili a intrusi non riuscivano a comprendere l’ambiente in cui erano state coinvolte. Una volta, sicuramente, era stato accudito con ben altro calore e amore, un tempo quando ogni zolla di terra era portatrice di vita.

Poi mi apparve quasi improvviso, dopo una curva. Era lì, in mezzo a un pianoro circondato da una corte di sudditi anch’essi grandiosi, ma che dovevano inchinarsi di fronte alla sua imponenza.

Non era, però, un sovrano assetato di potere, orgoglioso del suo dominio. Anzi, sembrava quasi nascondere la sua potenza, senza alcuna paura che le pieghe profonde del suo tronco svelassero la sua età. Fantastico, pensai, un castagno meraviglioso, che esibiva con estrema dignità le rughe del tempo.

Mi sembrava quasi di essere al cospetto di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, senza sete di conquista, però, ma solo voglia di vivere e trasmettere la saggezza a chiunque fosse parte integrante della Natura, dal più piccolo moscerino all’uccellino che si riposava sulle sue fronde ancora enormi -quasi un ombrello che volesse proteggere chi si accostava a lui- ai cinghiali, ai caprioli e, forse un tempo, anche al lupo e all’orso. Lui non aveva paura di loro e loro non avevano paura di lui. Anche l’uomo era ben accetto, soprattutto se tentava di seguire le regole perfette dell’Universo.

Una su tutte: dare senza nemmeno pensare di ricevere. Così fanno le stelle dopo milioni o miliardi di anni di lavoro faticoso e incessante. Loro sono capaci di creare tutti gli elementi chimici e poi regalarli senza nulla pretendere all’atto della loro morte. Sono le stelle che hanno formato le basi per le nostre cellule, il nostro cervello, il nostro pensiero, che troppo presto si dimentica di loro, i nostri occhi, che preferiscono guardare in basso, quasi vergognandosi di alzare gli occhi verso l’Universo, come se sapessero inconsciamente di aver tradito le aspettative del Cosmo.

C’è chi dà di più, c’è chi dà di meno, ma sempre in completa armonia, senza invidia e senza risentimenti. “Creature” gioiose di portare allegria, vita e speranza; di regalare tutta la loro essenza a qualsiasi altra creatura vivente oppure no (ma chi sa, realmente, cos’è la vita?). Il castagno lo sapeva bene e anch’egli aveva passato la sua lunga vita regalando la sua fatica, i suoi frutti, i suoi “figlioli” che avevano sfamato a lungo tante altre vite, quella dell’uomo compresa. Castagne come regali per tutti, senza chiedere nulla, forse augurandosi solo di essere ascoltato nel suo continuo silenzio.

Molti lo avevano ascoltato, molti avevano sicuramente approfittato del suo aiuto, accorgendosi che non vi era nemmeno bisogno di chiedere. Oggi, dopo quattrocento anni, quell’enorme tronco di dieci metri di circonferenza continua nella sua opera instancabile e le castagne continuano a cadere ogni autunno sempre più grandi e belle, come perle preziose, ricche di amore ed altruismo.

Sì, sì, l’avevo trovato! Era lui l’unico testimone che potesse raccontarmi il vero Roero, il suo territorio, le sue genti, i suoi dolori, le sue speranze, le sue fatiche e le giuste ambizioni. Quell’enorme caverna che si apre sul suo tronco, quel foro che passa da parte a parte e che ha sicuramente dato riparo a chissà quante creature, sembrava sorridere e il mormorio delle foglie si mescolava a un sussurro diverso, quasi un invito.

Lo sfiorai, sentii la delicatezza e la forza di quella corteccia secolare, seguii ogni nodo o spirale, ogni incavo e ogni protuberanza. E poi, quasi senza accorgermene, capii che stava parlando… Mi raccontò che era ancora piccolo e nervoso quando gli giunse l’eco del nuovo modo di studiare l’Universo che aveva instaurato un pisano di nome Galileo. Poi vide tanta gente armata, castelli che venivano assediati e distrutti e tanti contadini morire di fame. Li curò come meglio poteva e gli regalò le sue preziose perle, sempre più numerose e sempre più grosse. Ormai era un turbine e io ne ero avvolto … mi ricordò nomi e fatti, poveri che diventavano ricchi, ricchi che diventavano poveri, ma che erano comunque costretti ad abbandonare tutti, ugualmente, il suolo terrestre; bambini che crescevano e che lottavano, amando quella terra a volte ostile, a volte benigna. Lui, il grande vecchio li aveva conosciuti tutti, li aveva amati ed aiutati e di ogni vita trascorsa aveva conservato un ricordo sulla sua corteccia. Bastava leggere per sapere, bastava restare in silenzio per sentire la sua voce. Non solo, però… le sue radici avevano scavato nella sabbia e nella roccia che esistevano da decine di migliaia di anni e gli avevano trasmesso conoscenze a lui precluse. Tutto, ora, era scolpito nella sua memoria.

Un grande vecchio sì, ma ancora pieno di energie e di vita, capace di ripetere il suo gesto di altruismo anno dopo anno. Oggi le sue perle non vengono più raccolte con la frenesia di un tempo … oggi molte rimangono a ricordo dell’anno precedente. E’ un periodo di relativo benessere, ma a lui poco importa. Lui sa che tutto può cambiare e trasformarsi in poco tempo e non può che continuare ad offrire i suoi doni. E così continuerà aspettando la sua fine, sicuro di poter tramandare i suoi ricordi indelebili. Qualche giovane albero prenderà il suo posto e la sua memoria. Il grande saggio teme solo che una lama insensibile lo possa tagliare e i suoi ricordi essere bruciati quasi per gioco. Tuttavia, se fosse per bisogno, lo accetterebbe anche volentieri…

Poi tacque, forse stanco, ma forse solo per non stravolgermi con date, nomi, fatti, troppo numerosi per la mia debole e limitata memoria. Me ne andai avendo veramente conosciuto il Roero, terra splendida come chi lo aveva rappresentato per quattro secoli. Tornai spesso e mi parve che venissi riconosciuto, lo capii da come si muovevano le foglie e dall’improvvisa lucentezza che acquistavano. Ogni tanto riprendeva a parlare e mi indicava dove trovare altri suoi “fratelli” sparsi sopra le Rocche. Ognuno di loro avrebbe potuto darmi qualche notizia in più, completare una storia secolare incisa nella loro memoria. Non me lo feci ripetere due volte…

Viaggiatori che come me volete veramente conoscere il Roero, le sue genti, il suo passato, la sua forza vitale, andate a trovare il vecchio saggio, magari aprendo una bottiglia del suo nettare sopraffino vicino alla “Castagna Granda”, come viene chiamato nel luogo. Quel vino si aprirà in mille profumi diversi, in aromi profondi e leggeri, in giravolte di piacevolezza e severità e il grande foro nella corteccia del vecchio saggio si atteggerà ad un umile, sentito e accattivante sorriso. Ogni sorso di quel vino trasmetterà un segnale che viene dalle radici immense che conoscono perfettamente il suolo in cui si propagano.

Non traditelo mai, però, e quando penserete al futuro, magari seguendo impulsi improvvisi e incerti, non abbiate paura di chiedere prima consiglio a lui, al Signore umile del bosco. Nel silenzio totale lui saprà sempre darvi il consiglio giusto.

Anonimo viandante

Anch’io ho sentito il bisogno di andare ed accarezzare quel Signore della Natura e i suoi fratelli. Beh, che dirvi? Tutto mi è apparso diverso, completo, logico, di una semplicità disarmante. Grazie Castagna Granda !

Vincenzo Zappalà

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