Taccuino tedesco/1 – Da Würzburg a Brema tra il sud e il nord della Germania

0
6586

24 e 25 luglio 2021

Arrivo a Würzburg nel primo pomeriggio di sabato 24 luglio dopo circa sette ore di auto. Bevo un’Apfelschorle in bottiglia – tipica bevanda dissetante tedesca a base di succo di mela (Apfelsaft) e acqua frizzante – in un locale del Markt, la piazza centrale dove svetta la gotica Marienkapelle, che custodisce la tomba di Balthasar Neumann, l’architetto del Residenz.

L’albergo in Domstrasse, in pieno centro, mostra con orgoglio una scritta in caratteri gotici sul davanzale sporgente della facciata: «Vier Stände geben seit alters her Würzburg Ansehn, Kraft und Ehr», “Quattro ceti sociali conferiscono da lungo tempo a Würzburg reputazione, forza e onore”. Nel nome dell’hotel – Zum Winzermännle, letteralmente “Al piccolo vignaiolo”, rappresentato da una piccola scultura – è incisa una matrice del territorio, quella viticola: capoluogo della Bassa Franconia e della Romantische Strasse, che parte da qui per arrivare fino a Füssen, al confine con l’Austria, Würzburg è circondata dai vigneti.

La città è stata ricostruita due volte: dopo la guerra dei Trent’anni e dopo i bombardamenti del 16 marzo 1945, che distrussero la quasi totalità degli edifici. Il più famoso tra quelli sopravvissuti è il Residenz, capolavoro del barocco tedesco e Patrimonio dell’Umanità Unesco. Edificato senza badare a spese dai principi-vescovi della città a partire dal 1720, è stato ampiamente rifatto dopo i bombardamenti del 1945, che hanno fortunatamente risparmiato lo scalone d’Onore e la Kaisersaal, opere che hanno decretato la fama dell’architetto e ingegnere Balthasar Neumann.

Sopra lo scenografico scalone, chiuso da un atrio stretto e basso funzionale a provocare lo stupore del visitatore, si apre lo spettacolare, vertiginoso, celeberrimo affresco a cielo aperto di Giambattista Tiepolo, dipinto su una gigantesca volta di seicento metri quadri. Rappresenta, nel tripudio di un Olimpo che si libra in volo verso l’infinito, l’omaggio dei quattro continenti allora noti: l’America con una donna pellerossa, l’Asia con un’indiana su un elefante, l’Africa con una principessa nera su un cammello e l’Europa con i rappresentanti delle arti, tra cui campeggia lo stesso artista con i figli Lorenzo e Giandomenico.

La Kaisersaal, o Sala imperiale, al primo piano è un trionfo di stucchi e trompe-l’oeil con affreschi firmati dallo stesso Tiepolo, che al tempo, siamo nel 1753 (l’anno della morte di Neumann), percepì il favoloso compenso di 40.000 fiorini, pari a circa 1.800.000 euro attuali. Non mi sono dimenticato di immortalare queste meraviglie, purtroppo non era possibile scattare fotografie all’interno della reggia, che contiene oltre trecento stanze e le cui cantine erano in grado di ospitare fino a 15.000 ettolitri di vino.

Omaggio la grande pittura veneziana entrando nella monumentale, e un po’ anodina, Stift Haug in Bahnhofstrasse, chiesa secentesca che conserva sull’altare maggiore una potente pala di Tintoretto del 1585 raffigurante una popolata Crocifissione che assomiglia a un’Apocalisse.

Ceno alla Weinstube dello Juliusspital (Juliuspromenade all’angolo con Klinikstrasse), complesso architettonico ospedaliero, simile a una cittadella, fondato nel 1576 dal principe-vescovo Julius Echter von Mespelbrunn: dietro la lunga facciata di Balthasar Neumann si nasconde il principesco edificio realizzato dall’architetto ticinese Antonio Petrini, cui si deve anche la Stift Haug. La Fondazione ospita anche l’azienda vitivinicola Weingut Juliusspital Würzburg diretta da Horst Kolesch, la cui produzione si appoggia ad alcuni dei più importanti Lage della Franken, tra cui il celebre Würzburger Stein, il non meno importante Escherndorfer Lump o altri pregiati cru come l’Iphöfer Julius-Echter-Berg e il Randersackerer Pfülben.

Nella vineria sorseggio un bicchiere del Würzburger Silvaner Trocken 2020 e del Rödelseer Küchenmeister Silvaner Trocken Erste Lage 2019 nelle tipiche Bocksbeutel (bottiglie a forma di anfora) mentre mangio un piatto altrettanto tipico come il Wildschweingulasch (gulasch di cinghiale), seguito dallo Kaiserschmarrn (letteralmente “frittata dolce dell’Imperatore”), un dessert tipicamente austriaco ma anche bavarese (la Franconia ricade nel Bundesland Bayern) che consiste in una specie di crêpe sminuzzata servita con una confettura di ribes o mirtilli, o anche una salsa di mele (qui invece con del gelato alla crema). L’accompagno con un bicchiere del profumato, gustoso Franken Rieslaner Auslese 2018.

Il mattino dopo, esaurita la festa per le strade del sabato sera, la città è semideserta. Il cielo si è aperto e lascia baluginare sprazzi di sole. M’incammino lungo la Domstrasse, fotografo il Rathaus (il municipio, che in Germania è spesso un edificio importante anche dal punto di vista artistico) e faccio colazione sull’Alte Mainbrücke, il vecchio ponte sul fiume Meno (Main), ornato da dodici statue di Santi, un angolo di Würzburg che ricorda Praga.Sul lungofiume dell’Oberer Mainkai, dove gli innamorati lasciano i lucchetti con i loro nomi, si ammira la mole possente della Festung Marienberg, situata sulla collina e circondata dai vigneti di silvaner. Fu la dimora dei vescovi-principi prima della costruzione del Residenz.

Sono circa le nove del 25 luglio quando parto per Brema.

Da Würzburg a Brema ci sono 485 chilometri di strada che attraversano il cuore della Germania. Avamposto nordico della nazione, dove già si sente l’aria del mare del Nord, Brema è il più piccolo dei sedici Bundesländer della Repubblica Federale di Germania: la Freie Hansestadt Bremen, libera città anseatica di Brema, poco più di 400 km quadrati. La città che faceva infatti parte dell’Hansa, la lega commerciale tra città tedesche costituita nel medioevo sotto la guida di Lubecca. Lo stato federato è composto dalla stessa Brema e dalla città costiera di Bremerhaven, nata come porto di Brema ma separata da cinquanta chilometri di Bassa Sassonia.

Il centro storico costruito intorno al Markt, la vecchia piazza del mercato, lascia senza fiato per estensione e monumentalità. Arrivando da nord-ovest, la figura gotica e massiccia della Frauenkirche introduce alla visione centrale del Rathaus e del suo paladino Roland, la poderosa statua di Orlando, datata 1404, che vigilava gli interessi della borghesia cittadina rivolgendo la spada e lo scudo verso il Dom St. Petri, il regno del clero, che si erge con due alte e poderose torri cuspidate.

Il Rathaus, capolavoro dell’architettura civile e del rinascimento tedesco, è stato fondato nel 1251 e rammodernato nel 1404-1410. È rimasto illeso dai bombardamenti della seconda guerra perché protetto, come il coevo Roland (sono ambedue Patrimonio dell’Umanità Unesco), da cumuli di sabbia. La dinamica facciata del 1608-1612 è opera di Lüder von Bentheim. Sul fianco sinistro dell’ingresso è il celebre gruppo dei Bremer Stadtmusikanten, opera in bronzo di Gerhard Marcks (1951), uno dei simboli della città: i quattro animali posti uno sopra l’altro (nell’ordine un asino, un cane, un gatto, un gallo) sono ispirati alla fiaba dei fratelli Jakob e Wilhelm Grimm, a sua volta derivata da una legge medievale del luogo che prevedeva il mantenimento dei musici di strada da parte dell’amministrazione comunale. La tradizione vuole che si esprima un desiderio stringendo ambedue le zampe dell’asino.

La Böttcherstrasse, letteralmente “strada del bottaio”, è un angolo della città vecchia un tempo abitato dai lavoratori del rame e trasformato a partire dagli anni Venti del Novecento in un quartiere Jugendstil su iniziativa del commerciante di caffè e mecenate Ludwig Reselius, l’inventore del decaffeinato.

Si accede attraverso il rilievo dorato Der Lichtbringer, “il portatore di luce”, lungo una via di edifici in mattoni rossi, punteggiata da negozi di souvenir e artigianato, che collega il Markt alla Schlachte, la riva del fiume di Brema, il Weser, dove nella bella stagione i tavolini dei Biergarten fanno bella mostra di sé.

Verso sud-est, ai confini della città vecchia, lo Schnoor è un quartiere di piccoli vicoli dove si trovavano le manifatture di funi e corde – “Schnur” – a cui è intitolata una delle vie e tutto il quartiere. Conserva ancora il volto della vecchia Brema nelle piccole case a graticcio dove un tempo abitavano i pescatori (le più antiche risalgono al XIV secolo) e che oggi sono diventate negozi, laboratori di artigianato, atelier, caffè o graziosi alberghetti.

Poco oltre lo Schnoor e già fuori dalla cintura dell’Altstadt, la Kunsthalle (Am Wall 207), pinacoteca d’arte moderna e contemporanea nata dall’iniziativa di trentaquattro notabili cittadini nel 1849 e tuttora privata, è un appuntamento imperdibile per gli amanti della pittura. Trascrivo i titoli di alcune delle opere che, nello spazio di due ore, più mi hanno colpito. Trento vista da Nord, acquerello di Albrecht Dürer (1495). L’impudica Ninfa di primavera di Lucas Cranach il Vecchio (dopo il 1537). Il ritratto a grandezza naturale di Camille di Claude Monet (1866). Il Ritratto del poeta Zacharie Astruc di Edouard Manet (1866). La materica Onda di Gustav Courbet (1869). Il Campo di papaveri di Vincent van Gogh (1889). Il Villaggio dietro gli alberi di Paul Cézanne (1898). Ragazza e tre teste maschili di Edvard Munch (1898 ca.), scoperto nel 2005 sotto il dipinto Il bambino e la morte dello stesso museo. La sensualità, incisione di Franz von Stuck (circa 1891). All’ingresso campeggiano sopra una scala due opere frontali di Maurizio Cattelan che rappresentano una rilettura dissacrante dei Bremer Stadtmusikanten: L’amore salva la vita (1995) e L’amore dura per sempre (1998).

Alla sera ceno in un’istituzione cittadina, il Bremer Ratskeller, nome quest’ultimo che identifica un ristorante ospitato negli spazi storici del palazzo comunale (Rathaus) e che si trova anche in altre città della Germania. Quello di Brema risale addirittura al 1405. La sala storica, suddivisa in tre navate e sorretta da una ventina di pilastri con archi a tutto sesto, è la parte più antica. Sulla parete nord sfilano quattro enormi botti risalenti al XVIII e decorate con fregi e bassorilievi, chiamate “della scimmia”, “del leone”, “del drago” e “del delfino” per le figure che vi sono rappresentate.

Il mio tavolo è in una delle nicchie della parete opposta, una boiserie che profuma come una sagrestia. La specialità locale sono i Matjes, le aringhe, preparate secondo ricetta locale (quattro filetti crudi serviti con una salsa a base di mele, cipolle e panna con patate arrosto unite a speck e cipolle) oppure in “stile svedese” con una salsa di senape, miele e aneto. Un altro piatto del luogo è il Bremer Pannfisch (“pesce in padella”): filetti di salmone e merluzzo con patate arrosto, speck, cipolle, verdure alla julienne e salsa alla senape. Peccato che la realizzazione sia sovraccarica, rustica, turistica (ma non economica).

___§___

Contributi fotografici dell’autore

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

Previous articlePerlage d’estate: perle di assaggi, estivi e frizzanti
Next articleBolgheri Rosso Le Macchiole, verticale completa. Alla ricerca del sentimento bolgherese
Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here