Taccuino olandese. Seconda parte: Delft, Den Haag, Kinderdijk, Rotterdam

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DELFT

4-5 agosto 2021

Nel cuore del Randstand, nello Zuid-Holland, la cittadina di Delft – celebre per aver dato i natali a Johannes Vermeer e per le sue ceramiche (il blu di Delft ha fatto scuola, ma anche il successivo nero di Delft, ispirato alle lacche cinesi, ha lasciato un segno importante nelle arti applicate) – si raccoglie minuta intorno ai suoi canali, ma ha una piazza, quella del Markt, con il possente Stadhuis, dalla spazialità imprevista, e degli edifici ecclesiastici (la Nieuwe Kerke dall’alta torre campanaria, e la Oude Kerk, la più antica della città, iniziata nel 1246) dalla monumentalità altrettanto spiazzante. Nella piazza incontro un gruppetto di ragazze italiane: c’è chi sta finendo gli studi, c’è chi già lavora. Mi raccontano che devono andare a ritirare le loro biciclette al deposito, pagando una multa perché le avevano parcheggiate in divieto di sosta (la comunicazione è ovviamente arrivata per sms, non con una telefonata). E mi dicono che non torneranno più in Italia, perché qui la qualità della vita è più alta e perché nelle aziende vige una struttura gerarchica orizzontale, che, a differenza di quella verticale italiana, lascia più spazio al confronto, alla cooperazione, alla considerazione.

È un piacere guardare e fotografare Delft, il suo aspetto medievale, la sua grazia urbanistica e architettonica, le ninfee adagiate sulle acque di alcuni suoi canali. É così “vermeeriana” che, al netto delle suggestioni, girando per le vie, sembra di incrociare con lo sguardo alcuni edifici o scorci dei suoi quadri, perfino nella strada dove sono alloggiato. Ho accuratamente evitato di visitare il Vermeer Centrum Delft e le riproduzioni a grandezza naturale delle 36 opere attribuite all’artista. L’epifania che un quadro può svelare al nostro sguardo non ha nulla a che fare con spettacoli multimediali o rappresentazioni digitali: è un fatto di luce e colore, dunque un’esperienza sensoriale, e come tale può essere unicamente esperita dal vivo, come l’assaggio di un vino o una notte d’amore.

Così il giorno dopo sono a Den Haag, conosciuta da noi come L’Aia. Punteggiata da parchi e adagiata sulla costa occidentale del paese, è la terza città dell’Olanda per numero di abitanti, è la sede della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite e della Corte penale internazionale, come del parlamento, del governo e del sovrano olandesi, e di tutte le ambasciate straniere: una piccola capitale, insomma, senza esserlo giuridicamente.

Il Mauritshuis sembra quasi galleggiare sulle acque dell’Hofvijver, isolotto alberato nel cuore della città. L’elegante dimora secentesca concepita da Jacob van Campen ospita il Koninklijk Kabinet van Schilderijen Mauritshuis, il gabinetto reale di pittura. È una delle collezioni più belle di tutta l’Olanda, seconda solo al Rijksmuseum sul piano numerico delle opere, ma non su quello della qualità, di livello assoluto, o dell’allestimento, davvero magnifico, con illuminazioni perfette in sale d’epoca dentro un palazzo che sembra una bomboniera.

La collezione contempla due capolavori assoluti di Veermer. Il primo, e più famoso – famoso in realtà solo dopo l’uscita nel 1999 dell’oleografico film La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber – è l’omonimo quadretto che è un miracolo pittorico: il bianco della perla dell’orecchino si riflette nei lievi bagliori delle pupille, nella leggera biacca sulle labbra color fragola, mentre una pennellata fluida dona vita a uno sguardo di rara seduzione in cui si confondono la melanconia, il trasognamento, il desiderio. Lo sfumato del viso e il senso del respiro, provocato dall’ombra sotto il naso, gareggiano con l’analogo, e sublime, magistero di Leonardo.

Davanti alle opere di Veermer si rischia di perdere il senso del tempo e si vorrebbe quasi essere inghiottiti dalla magia di un mondo inesistente e perfetto, quello dell’arte. Il secondo, che gli sta di fronte, è la Veduta di Delft, il quadro amato da Marcel Proust che nessuno sembra quasi calcolare (sono tutti impegnati a farsi i selfie con la Ragazza) perché non ha, fortunatamente, ricevuto la stessa sovresposizione mediatica. C’è un trascoloramento della luce prodotto all’improvviso da uno spostamento delle nubi: tutta la materia del mondo è diventata puro colore, e colore puro.

La collezione ospita una Deposizione di Roger van der Weyden da brivido, un quadro a lume di candela, una vera chicca, di Peter Paul Rubens (pittore che raramente mi entusiasma), i ritratti di Hans Memling, Lucas Cranach il Vecchio e Hans Holbein il Vecchio, i Pattinatori sul ghiaccio di Hendrik Avercamp e un’opera che, per vari motivi, rapisce la mente come Il cardellino di Carel Fabritius, come ben sa chi ha letto l’omonimo romanzo di Donna Tartt.

E poi c’è lui, Rembrandt. Ci sono pochi altri pittori nella storia – gente come Caravaggio, Monet e ovviamente lo stesso Veermer – che fanno questo tipo di differenza, quella cioè che ti spinge a organizzare, a motivare un viaggio anche solo per vedere le loro opere. Di Rembrandt si possono ammirare La lezione di anatomia del dotto Tulp, il tardo, tardissimo Autoritratto e una serie di quadri di piccole dimensioni – come il conturbante, modernissimo Susanna al bagno – dove il pittore di Leida fa sempre la differenza, riuscendo a essere preciso nel dettaglio della pennellata come un miniaturista o ad allargare a dismisura lo spazio (Canto di lode di Simeone).

Esco dalle penombre di queste stanze incontrando la luce del giorno: gli occhi si riempiono di fosfeni. Accanto al Mauritshuis c’è il capolavoro architettonico della città: il Binnenhof, la “corte interna” dell’antico palazzo di governo. Entrando nella Grenadierspoort si può ammirare la parte absidale del Ridderzaal, la sala dei cavalieri, squisito esempio di architettura gotica risalente alla fine del XIII secolo, con facciata porticata, spartita da un rosone, da due finte bifore, rinserrata da due torri laterali e coronata da un timpano decorato con oculi lobati sia vetrati, sia murati.

Si possono ammirare gli edifici affiancati del Mauritshuis e del Binnenhof sull’altra riva dell’Hofvijver lungo il Lange Vijverberg: dietro di loro emergono come elementi avveniristici i grattacieli del Nieuw Centrum, che interrompono la linea bassa e orizzontale della città storica.

Mi fermo a un chiosco per mangiare la specialità della nazione: l’aringa, cruda, cotta, affumicata o accompagnata da salse. Questo pesce azzurro – testa piccola, dorso scuro e lati argentati – conservato in salamoia e considerato tradizionalmente dagli olandesi il regalo di Dio per riempire le pance degli affamati, viene in genere servito a pezzetti su un piattino di carta e mangiato con lo stuzzicadenti.

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KINDERDIJK

6-9 agosto 2021

Il nome di Kinderdijk, località situata a sud-est di Rotterdam, vi dice probabilmente poco ed è un peccato perché identifica il luogo dove si staglia il complesso dei 19 mulini a vento costruiti nel 1740 e diventati Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Sono disposti in duplice, ordinata fila lungo un sistema di canali a ridosso del fiume Lek, disegnando una coreografia naturalistica e meccanica (è un parco eolico d’epoca) di forte impatto paesaggistico. Guardarli e fotografarli, camminando in mezzo al verde e alle superfici riflettenti dell’acqua, sferzati dal vento, bagnati dalla pioggia e poi riscaldati dal sole, seguendo le umorali meteoropatie del clima nordico, e poi mangiare i poffertjes, dolce prelibatezza locale, che sono delle specie di frittelle fatte al momento all’ombra dei mulini, è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita.

L’appartamento che ho affittato in Est Kinderdijk ad Alblasserdam, Zuid-Holland, aveva una veranda con vista panoramica sui mulini. In almeno un’occasione ho assistito allo spettacolo dell’arcobaleno che ne incorniciava le sagome sull’orizzonte di una campagna piatta, come tutta quella olandese, dal respiro infinito.

Lì vicino c’era un caseificio, spoglio e spartano come ogni caseificio, dove non ho mancato di acquistare dell’altro formaggio (non ho osato pensare ai valori del colesterolo dopo questa vacanza), due ottimi Boerenkaas (letteralmente “formaggio del contadino”) da latte di vacca e di capra, abbinati poi al Riesling Porphyr 2018 di Wagner Stempel (Rheinhessen) trovato in un’enoteca di Gouda, la città del formaggio.

Situata alla confluenza dello IJssel e del Gouwe, nota per i siroopwaffels e per le pipe, ma celebre per l’omonimo formaggio, Gouda merita uno sguardo attento che va oltre le sue specialità. Isolato nella piazza centrale del Markt, ad esempio, c’è lo Stadhuis (municipio) più antico d’Olanda: slanciato e fiabesco, risale al 1450, ha una scala d’accesso del 1603 e interni del 1642. Sul fianco destro c’è un carillon con figure, mentre dentro vengono documentate la storia e le tecniche di lavorazione del Gouda, anche con degustazione e possibilità d’acquisto (inutile dire che ho peccato anche qui). Il cerimoniale della pesa delle forme del tradizionale Kaasmarkt, l’affollato mercato del formaggio simile a quello più famoso di Alkmaar, a nord del paese, avviene ogni giovedì mattina dalle 10 alle 12.30 nel periodo da aprile ad agosto (purtroppo ci sono andato il giorno prima). Sul fianco dello Stadhuis c’è una formella del XVII secolo che lo immortala.

Si parla del Gouda Holland, oggi marchio protetto, già nel 1184. La cera porosa che ne riveste le forme tondeggianti, dalle più piccole, quasi tascabili, a quelle che pesano 15 chili, non ha una funzione decorativa, ma serve per prevenire le muffe. Se è di colore giallo o rosso la forma ha una breve stagionatura (fino a sei mesi), se è nera il periodo di affinamento sale a un anno. Inutile dire quanto questa tipica, ridente, colorata, vivace cittadina olandese sia punteggiata di negozi specializzati nella vendita del formaggio. In uno di questi ho perfino trovato un “Gouda Grand Cru”, che evidentemente è una menzione di fantasia.

Case storiche dai frontoni movimentati, canali animati, ponticelli pieni di fiori, panchine multicolori, storici e imponenti edifici religiosi (Sint Janskerk, la chiesa tardo-gotica di San Giovanni dalle 70 vetrate, di cui tredici risalenti al 1555-73, con 49 campane nella torre), deliziosi musei (Museum Gouda – Het Catharina Gasthuis, ospitato nel trecentesco ospedale di Santa Caterina e rifatto nel XVII secolo) e un imponente mulino, nella parte ovest della città, il De Roode Leeuw, “il leone rosso”, originario del 1619, ricostruito nel 1771, restaurato nel 1986: Gouda è una tappa irrinunciabile.

«Verticale, policentrica, contemporanea. Seconda città del paese e primo porto d’Europa, solcata dalla Nieuwe Mass che incanala acque della Mosa e del Reno tra anse e bacini artificiali, Rotterdam è la più atipica tra le città olandesi ed è un compendio di sperimentazione architettonica tra i più affascinanti del continente» (Olanda, Guide Verdi d’Europa, Touring Editore 2015).

La vasta piazza del Blaak accoglie fermenti ed esiti tra i più interessanti dell’architettura cittadina. Il Markthal, firmato dallo studio Mvrdv e inaugurato nel 2014, è caratterizzato da una colossale volta multicolore in cui si affacciano gli oltre 200 appartamenti disposti su 10 piani e dove campeggia lo sgargiante “dipinto parietale”, non esente da effetti kitsch, dal titolo Horn of Plenty, la cui abbondanza si riflette nel mercato sottostante, un formicolante bazar multietnico dove si può trovare di tutto, specie se è esotico o mediorientale. Manco a dirlo, sono ricascato nel gözleme (questa volta senza pesto), nelle aringhe e nei frutti di mare.

Di fronte, i volumi cubici con i condotti a vista della Bibliotheek, costruita da Hans Boot nel 1983, ricordano quelli del Centre Pompidou di Parigi, mentre il Blaaktoren, soprannominato “Il matitone”, è un’imponente torre residenziale ideata da Piet Blom, il cui capolavoro è lì accanto e si chiama Kubuswoning. È un complesso edilizio concepito nel 1984 come l’unione di case cubiche disassate e sporgenti rispetto ai blocchi verticali che le sostengono, con finestre inclinate verso il basso, mansarde dalle finestre poligonali e dai tetti spioventi che guardano verso il sole, interni dal design avveniristico e meravigliosi effetti di aberrazione spaziale. C’è una targa in basso con scritto: “Now, what’s this? A palace or a fun fair?”.

Ma tutta la Rotterdam che scorre sui due versanti del Nieuwe Maas – in opposizione all’Oude Haven, il vecchio porto oggi trasformato in locali alla moda, e al Witte Huis, “la casa bianca” costruita alla fine dell’Ottocento in pieno stile art nouveau (al tempo era il palazzo più alto d’Europa) – è un fiorire di invenzioni architettoniche irregolari, ardite, quasi una sfida a chi erige il grattacielo o l’edificio più bizzarro.

Sui docks della sponda sud del fiume, il recupero delle aree dismesse e delle piattaforme portuali del Kop Van Zuid ha visto l’affermarsi di soluzioni originali come la torre Kpn Telecom di Renzo Piano (2000) con la sua facciata inclinata (il cavo diagonale che la fissa al terreno ritorna duplicato nella Torre Isozaki di Milano); come la torre cilindrica, omaggio agli antichi fari, del World Port Center di Norman Foster (2001); come il Montevideo dello studio Meccanoo (2005), il granitico New Orleans di Álvaro Siza (2010) o il De Rotterdam di Rem Koolhaas (2013), un complesso di blocchi di alluminio e vetro sfalsati e impilati fino a 150 metri.

Scorrono da riva a riva le tensioni del Willemsbrug, il ponte da piloni rossi, e il corpo flessuoso del “Cigno”, come viene soprannominato l’Erasmusburg, il ponte dagli asimmetrici piloni bianchi. Un terzo ponte, il Koningshaven Bridge, noto come De Hef, sta facendo notizia in questi giorni perché pare che debba essere smontato per far passare il nuovo, faraonico yacht di Jeff Bezos.

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Contributi fotografici dell’autore

 

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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