Diari chiantigiani ’23 – Podere Campriano

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Podere Campriano è come fare un viaggio à rebours nella più solida delle tradizioni contadine chiantigiane. E’ ritornare coi piedi per terra, insomma, o forse soltanto sognare, non so.

Raro esempio di “viticoltura cittadina“, con le vigne che scendono a gradoni sull’abitato di Greve, Campriano è una delle cantine più minuscole del Chianti: tre ettari di vigna, di cui due sul colle omonimo, affacciati sulla città, e uno a Montefioralle, nel versante opposto del fiume, su antichi terazzamenti: stesse altimetrie, stessi suoli di alberese ( la specifictà più forte del terroir di Montefioralle, non così scontato invece ritrovarlo sulla sponda opposta), e il sangiovese a esclusivo protagonista, declinato in tre vini parlanti in grado di radicarsi affettuosamente nei ricordi più cari.

Assieme ai vini, il forte attaccamento alla terra e alle tradizioni della famiglia Lapini, grevigiana doc, e una idea di viticoltura sana, che unisce pragmatismo e idealità in una visione d’insieme pulita e in gesti artigiani consapevoli. Senza cerebralità o astrazioni, però, solo concretezza, quella sì. Elena Lapini, suo marito Luca Polga, il giovane figlio Pietro. Ed ecco qua Campriano.

L’approccio agronomico è un approccio bio della prima ora, ma le piante hanno ricevuto un impulso vitale ad alto tasso di resilienza da quando si è incominciato a fare uso di essenze, che vengono irrorate in sinergia con rame o zolfo. Trattasi di propoli, alghe nere e brune, olio di arancio, ortica, equiseto, con il germe di grano in qualità di aggregante e di acceleratore d’effetti.

Invece l’ingresso nella età della consapevolezza lo si deve al padre di Elena, Valerio Lapini, il fondatore, che nel ’99 decise di fare sul serio rimpiazzando buona parte del vigneto piantato dal padre Nello per ricostituirne di più razionali, eccetto che una piccola porzione di vigna rimasta come era, ed oggi cinquantenne, lanciando la palla e il futuro nelle mani della figlia Elena

I Chianti Classico di Podere Campriano sembrano conoscere il significato della parola purezza, e poi posseggono quel meraviglioso senso dell’equilibrio, tutto grevigiano, per il quale polpa e densità si saldano senza sforzo con acidità e tannini in un compendio armonico.

Prendi il Chianti Classico 2020, per esempio, sinuoso e mineraloide, bilanciato e puro, con la viola stampigliata a fuoco nel suo dna. Non smetti di berlo.

Oppure il Chianti Classico Riserva del Fondatore 2019, le cui uve provengono dalla vigna piantata negli anni ’80 da nonno Nello, annunciato da un cipiglio austero e da un frutto più scuro. A muoverlo è una verace schiettezza, e un sorso energico, guizzante, dalla tattilità gradevolmente rugosa.

In realtà, prima dell’età matura, ovvero prima dei reimpianti di fine anni 90, esisteva un’altro vino, il Vin Santo, elaborato in tirature confidenziali e in pochi flaconi da 0,75 dal padre Valerio, quand’era il caso. L’ultimo atto è targato 1998, e di quella bottiglia mi fu fatto dono la prima volta che arrivai a Campriano, almeno 10 anni fa. Sembra che non ne esistano più in giro, di quelle bottiglie lì. Di certo non la mia. Ci ha onorati della presenza appena un anno fa, stappata nel corso di un consesso conviviale per festeggiare un incontro, ergendosi ad inatteso protagonista e scoperchiando quel tipo di meraviglia che sola attiene alle sorprese.

Però a Campriano, in fondo, quel che vi respiri è l’umiltà, e la dimensione semplice delle cose fatte col cuore, in un luogo che ridà misura ai gesti, il giusto peso agli accadimenti della vita.

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Contributi fotografici dell’autore

FERNANDO PARDINI

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