C’è Barbera e Barbera. La versione della Cantina Vinchio Vaglio

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Il barbera è uno dei vitigni che maggiormente, e incongruamente, diamo per scontati. E non dovremmo, poiché la sua natura proteiforme gli consente di trovare una dimensione e definirsi un’identità sotto svariate accezioni. Insomma, ognuno ha la “sua” Barbera. Sia essa la freschezza e la beva disimpegnata dei più luminosi esempi del Monferrato, tanto beverini da sembrare “quasi mossi”, e invece tuttaltro che sottili; oppure la nobiltà della trama tannica della Barbera d’Asti, protagonista nel reinventare (e riscattare) l’immagine del vino-vitigno come rosso importante di sorprendente eleganza, complessità e potenziale evolutivo (anche qui, scontando il rito di passaggio della profusione di legno nell’uso della barrique, adesso parzialmente rientrato); o ancora, l’estremizzazione della ricerca della maturità fenolica, nel timore quasi fobico di ottenere un tannino rugoso, del Nizza DOCG, vera odierna alternativa all’Amarone, per impatto fruttato e opulenza.

Tutto questo può essere il Barbera, e pure tutto ciò che ci sta in mezzo, cosicché la riuscita di una determinata selezione non può prescindere da un progetto agronomico ed enologico meditato e tenacemente perseguito, sia esso la rappresentazione di un terroir, l’esaltazione del varietale o la ricerca della corrispondenza ad un predefinito modello stilistico dettato dal mercato, dalla critica enologica o dalla predilezione del produttore.

Pertanto, in un momento convulso del mio ultimo Vinitaly, mentre mi dirigevo allo stand della Cantina Sociale di Vinchio Vaglio Serra, mi domandavo quale Barbera avrei trovato, o meglio quale delle numerose anime della Barbera avrei trovato la più riuscita.

Le cantine cooperative, tra le storie contadine italiane, sono le più virtuose. Hanno riscattato l’endemica piaga della miseria della vita rurale tramite la solidarietà, proiettando il lavoro dei campi in una dimensione imprenditoriale e sul palcoscenico internazionale. Per l’appassionato costituiscono spesso una fonte di bottiglie di sicura affidabilità qualitativa a un prezzo conveniente, senza voli pindarici ma con un’interpretazione dei vitigni a disposizione pressoché didattica.

La Cantina di Vinchio Vaglio Serra, nata nel ’59, conta 500 ettari vitati coltivati da ca. 180 conferitori, per una produzione annuale intorno alle 900.000 bottiglie, più un’importante quantità di prodotto venduto in bag in box. Il focus, ça va sans dire, e sulla Barbera, declinata sia nella forma di Barbera d’Asti DOC, estesa denominazione che copre quasi 200 comuni, sia in quella del Nizza DOCG, con la Cantina che si situa pressoché al centro del territorio delle 18 municipalità dell’areale.

Il mio primo assaggio, assistito dal Direttore della Cantina e dalla PR Maddalena Mazzeschi, è la Barbera d’Asti Superiore DOCG I Tre Vescovi 2020, tirata nella quantità di 250.000 bottiglie e affinata 6 mesi in botte grande. Mi è parsa un ottimo punto di partenza, come sintesi delle plurime anime del Barbera, matura ma non troppo, di bella beva senza che la si possa definire magra: un vino “medio”, nella saturazione cromatica, nell’intensità olfattiva, nella struttura complessiva… medio ma non mediocre, poiché la ciliegia e la fragola mature, paradigmatiche, sono gradevoli e croccanti al sorso, tanto quanto un tannino presente ma non aggressivo, che sostiene una succosità accattivante e un allungo ove si ritrovava l’immediatezza del frutto. In sintesi, signore e signori, il Barbera!

A seguire il risultato di un progetto di cui la Cantina va molto fiera: il censimento, la selezione, il recupero e la valorizzazione delle vigne più vecchie dei soci conferitori, veri monumenti alla sapienza agronomica che in altri contesti sarebbero stati rimossi in quanto non sufficientemente produttivi, e in questo caso invece preservati e tesaurizzati come memoria storica e come strumenti espressivi di un’identità territoriale.

La Barbera d’Asti DOCG Vigne Vecchie 50° (si chiama proprio così – uscì per la prima volta in occasione del cinquantenario della Cantina) proviene da vigneti che arrivano fino ai 70 anni di età, e comunque mai meno di 40. L’uva, vendemmiata a mano in cassette, viene recapitata per la vinificazione entro il giorno di raccolta per mantenerne integre le caratteristiche, e quasi come segno di rispetto per i venerandi vigneti, il vino non vede legno, ché tra vecchie viti, cura certosina e selezione vendemmiale, si può ragionevolmente contare sul fatto che la qualità del tannino non abbisogni di correzioni. Inoltre, le Barbera dei tempi che furono erano vini gioiosi, diretti, irresistibili per immediatezza; con la rinuncia al legno il re è nudo, si può godere della polposità del frutto nella sua integrità, ma qualsivoglia eventuale difetto non può essere sottaciuto.

Il vino riluce di un rubino denso e attraente, al naso la ciliegia matura si trasfigura in amarena; la bocca ha succo, il terroir di sabbie di origine marina, magre ed esigenti, ha costretto le uve a concentrarsi. Evidentemente hanno raggiunto la maturità fenolica, perché la grana del tannino è di rilievo; sconta una leggera alcolicità che non impedisce un allungo in dolcezza, pieno e appagante. A chi piantò quelle vigne sarebbe piaciuto.

Il 50° è una versione speciale del Vigne Vecchie, che esce anche come Barbera d’Asti Superiore DOCG senza ulteriori specificazioni, subendo un affinamento in legno non timido. Trovo questa versione un progetto enologico impeccabilmente realizzato, che però non mi intriga altrettanto. Esiste oggettivamente un target di mercato che gradisce la presenza di una certa categoria di sentori e quant’altro, e la sua importanza commerciale certo si merita un vino ad hoc: e così l’olfatto è intenso ma un poco monocorde, si intuisce la presenza di un’apprezzabile materia fruttata ma riconoscimenti di tostatura e speziature assortite tendono a prevaricare. Il palato è saporito e non manca di un’acidità che lo equilibra, ma il legno non tarda a ripresentarsi irrigidendo il fin di bocca. Un vino perfetto per gli amanti del genere, la cui fattura è degna di lode, ma gli amanti del Barbera gioiscono di più confrontandosi con altre anime del vino-vitigno.

Fra le quali comparirebbe sicuramente il Nizza DOCG Laudana, da una vigna risalente al 1987, piantata su un crinale di collina, un “bricco” orientato a sud, le cui uve sono state sempre ben reputate. In un Nizza la struttura è tale che l’uso del legno è d’uopo: i mesi di barrique, anche di secondo e terzo passaggio, arrivano a 12. Sulle prime lo spettro olfattivo del millesimo 2019 è relativamente introverso, ma se lo si sollecita con l’ossigenazione e lo si aspetta a sufficienza, si fa perdonare a suon di amarena e cioccolato, con un tono di legno ottimamente integrato. Al sorso una “volumetria” sopra la media è gestita con criterio; si tratta di una bottiglia che si affronta con lodevole facilità, e se la sensazione tattile sul finale si sgrana un poco, è come se tutto appoggiasse su un tappeto di frutta matura, che presto riconosciamo essere il carattere immanente del vino.

La sfida di riuscire a contemperare le dette anime multiformi del Barbera è stata affrontata dalla Cantina cesellando un prodotto di eccellenza: vigne vecchie ma non solo, selezionate per caratteristiche ideali per la produzione di un’etichetta dal profilo stilistico codificato da un apposito questionario (“concorso di proposte”) cui risposero oltre 5.000 clienti. E così anche il mercato ha potuto dire la sua sul Sei Vigne Insynthesis, altra Barbera d’Asti Superiore DOCG con la quale mi spingo a ritroso nelle annate, a partire dal 2017.

Vino ambizioso, senza compromessi, che affronta 20 mesi di barrique nuove (!), ovvero anche più del Nizza (!). Si tratta di una bella riuscita per il torrido millesimo, cui peraltro il Barbera ha fatto fronte meglio di altri vitigni più soggetti all’hype modaiolo, in forza della sua freschezza. E infatti il tono di colore non è evoluto, il naso è espressivo e non cotto, con un richiamo di cioccolato a fornire subito la cifra dello stile: è un’impostazione moderna, ma il Barbera ci sguazza, non si siede (anzi!), non difetta di sapidità, subisce sì l’annata mostrando una certa semplificazione nell’articolazione aromatica, ma corre l’obbligo di un plauso a un tannino che in cotanta difficile annata, e con tale vitigno, può ben dirsi cesellato.

Inoltre, la stessa etichetta nella versione 2016 non fallisce l’obiettivo di rappresentarne l’austerità giovanile e il potenziale evolutivo: per l’acidità vibrante e la sapidità, oltre ad una grinta gustativa che si stempera in allungo e in amichevole dolcezza di frutto; giusto per ricordarci che il vitigno, anche nelle versioni più ambiziose, non abdica mai a quella disimpegnata immediatezza che lo ha reso brillante compagno di chiacchierate, reminiscenze, partite a carte e, talora, di fosche riflessioni.

E’ vero, il Barbera è amichevole e rassicurante, poiché chiunque può ritrovarvi ciò che a lungo ha ricercato in altre bottiglie e in altre tipologie di vino. E cosa meglio di una Cantina Cooperativa, che di quella varietà vive e la fa vivere? Metti esperienza, sapienza, intelligente adesione alle tendenze del mercato senza tradire la propria anima, un rapporto qualità/prezzo che guarda a chi del vino fa un pezzo della propria quotidianità, ed ecco che la pausa veronese allo stand della Cantina è servito da memento per una varietà storica troppo superficialmente data per acquisita, e che invece, fortunatamente, non lo è.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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