Diari chiantigiani ’23 – Querciabella

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Ti arrampichi fino a Ruffoli e ti rendi conto che quel posto è in realtà un avamposto. Isolato e silente, per nulla antropizzato, trasmette una forte suggestione, tipo quella di una natura che comanda. Quando poi ti avventuri fino a Barbiano, dove ci sono le vigne più alte, diventa una frontiera.

Querciabella è nata qui negli anni Settanta, per opera di Giuseppe Castiglioni, per poi svilupparsi grazie alla visione illuminata e al tempo nient’affatto scontata del figlio Sebastiano, che desiderava costruire un progetto fondato su una agronomia pulita e senza compromessi, pienamente integrato con territorio e ambiente.

Oggi, oltre alla biodinamica, estesa su di un parco vigneti di 50 ettari che comprende anche le acquisizioni di Radda (13 ha) e, più recenti, di Lamole (8 ha fra nuovi ed esistenti), è arrivata la certificazione vegan; ma a parte l’etichetta di “metodo”, percepisci una sostanza nuova nei vini, che hanno recuperato quel senso dell’equilibrio e quella grazia composta che ne segnò l’ascesa tra la fine degli anni 80 e gli anni 90 del secolo scorso.

Di certo si avvantaggiano della complicità dei siti da cui provengono le uve, che contemplano altimetrie significative (dai 400 ai 700 metri) e una composizione dei suoli portatrice sana di finezza. Come le arenarie di Ruffoli e di Lamole, o come i galestri delle pertinenze raddesi. Ma anche della sensibilità dell’enologo Manfred Ing, l’attuale direttore tecnico, colui che da una decina di anni a questa parte ha preso in mano le redini della produzione, avvalendosi della consulenza dell’enologo piemontese Luca Currado.

Batàr, intanto, il celebre bianco della casa, ha cambiato pelle, scrollandosi di dosso le ingerenze materiche e legnose di un tempo per aprirsi al dettaglio sottile e alle ragioni della compostezza.

Mentre dalla batteria dei Chianti Classico, oltre a una inappuntabile fattura tecnica che talvolta ne ha persino incrinato la piena spontaneità, emerge un grado di definizione e di contrasto che va traghettandoli su registri espressivi più profondi; in particolare se ci riferiamo al Chianti Classico Riserva (2020) – puro e sangiovesoso, fresco e armonico – o ancor di più al Chianti Classico Gran Selezione 2019, ricavato con le uve di Ruffoli e al suo esordio assoluto, la cui finezza d’altura e il cui slancio sapido racchiudono nuovi paradigmi.

Infine c’è lui, Camartina, supertuscan per antonomasia, che nelle ultime edizioni, come ad esempio 2018 e 2019, ha ritrovato quella misurata eleganza di passo, tanto attesa, che è in fondo la sua firma, dote che la mia fallace sensibilità di bevitore aveva dato per dispersa, e che oggi ricompare ai sensi con una luce nuova.

FERNANDO PARDINI

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