L’ascesa del Beaujolais

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Nonostante le difficoltà che ha sul piano delle vendite, il vino del Beaujolais mi pare uno degli attori più promettenti per il futuro, almeno qui in Italia. Non mi occupo di flussi di mercato né traggo auspici dalle viscere degli uccelli, quindi posso sbagliarmi.
Però quattro, cinque, dieci, venti segnali differenti di interesse beuajolaico da parte di amici enofili e colleghi esperti puntano in una direzione precisa.  Il Beaujolais ha il doppio vantaggio di avere cru insigni e di non farli pagare un organo interno al bevitore, come invece accade ora nel resto della Borgogna (sì, perché amministrativamente ricade nella medesima regione). Diversi assaggi della scorsa estate mi confermano in questa impressione. Trascrivo le note dei tre che ricordo meglio:

Beaujolais 2021 Cuvée de Varennes Domaine des Crêtes
Leggero ma non vuoto, scattante ma non nervoso, succoso ma non smaccatamente fruttato, si beve compulsivamente ed è quindi oggettivamente pericoloso: come per le patate al forno, si continua a mandar giù, indipendentemente dalla quantità. Buonissimo nel ricordo, nonostante sia stato bevuto in un ristorante spocchioso e poco accogliente (leggi il post scriptum)

Jean Marc Bourgaud

Morgon 2021 Sunier
Comprato su consiglio dell’abile Angelo Peretti, è stato grandemente apprezzato per il corpo agile e snello, per la profumazione netta, floreale, invitante, per il gusto ritmato, quasi privo di trama tannica, aereo.

Morgon Côte du Py 2020 Jean-Marc Burgaud
Nonostante sia figlio di una vendemmia particolarmente difficile da gestire, il produttore ne ha tratto un vero Beaujolais per silhouette longilinea, purezza di frutto, slancio vitale.

 

Post scriptum

Come sa o dovrebbe sapere chi fa ancora critica enogastronomica – sia pure in forma ormai residuale – realtà complesse da analizzare non si possono liquidare con valutazioni semplicistiche.
Il mondo che sta prima e dietro una tavola di cosiddetto fine dining, cioè molto spesso una tavola stellata o pluristellata, è di una certa complessità. Ho potuto “percepire” direttamente il dietro le quinte di alcuni di questi ristoranti. La visione di documentari serii o di serie televisive affidabili nella ricostruzione della realtà (penso ad esempio all’osannata serie The Bear, in particolare alla sesta puntata della seconda stagione, intitolata “Forchette”) mi ha poi confermato in alcuni pregiudizi. Pregiudizi e non giudizi, perché l’esperienza diretta è insufficiente.

Un punto per me urticante sta nella mania per la precisione. Ogni aspetto, anche il più infinitesimo, è oggetto di standardizzazione morbosa: dalla regolarità ossessiva dei tagli (“ogni zucchina deve essere a cubetti di 0,6 millimetri”) ai tempi cronometrati al secondo, alle temperature misurate alla frazione di grado*, et similia.

Nelle menti degli chef e dei loro sottoposti questa pignoleria patologica è di solito vissuta come sinonimo di “qualità assoluta” e “tensione verso la perfezione”. Niente di nuovo, eh, tutto questo è ovvio per chi un po’ conosce il settore.
La ricerca della perfezione è quindi per molti ristoratori il motore centrale. Nessuno o pochi di loro si interrogano su questo elemento fondativo, considerato ovvio e autoevidente: più sei preciso, più tendi alla perfezione, meglio è.

Una lodevole eccezione, en passant, è la figura del cuoco antico incarnata da Carmelo Chiaramonte, un cuciniere siculo che detesta apertamente le fissazioni micrometriche dell’alta cucina, e che al contrario ai fornelli è un attore di pancia, anche se il cervello non manca affatto: “non mi rompete i coglioni con la cottura a bassa temperatura o il taglio esatto della brunoise, le lasagne di mia nonna erano buone anche e forse soprattutto perché avevano gli angoli un po’ bruciacchiati”. I guardiani dell’ortodossia ci leggeranno una forma di anarchia un po’ arruffona e qualunquista, io ci leggo libertà e slancio.

Questa visione del mondo è davvero simile – per non dire coincidente – alla fissazione dei produttori di vino per il punto di maturazione “perfetto” delle uve, per la selezione dei grappoli “perfetti”, magari acino per acino, per la scelta dei legni dalla stagionatura “perfetta” per le botti, e così via.
Ora, tutto questo reticolo di prescrizioni, e quindi di macro e micro divieti, è precisamente ciò che disamora numeri crescenti di clienti e di bevitori.

Colleghi specializzati nella critica gastronomica mi raccontano di una palpabile stanchezza in chi frequenta(va) questi locali scintillanti. È evidente a tutti i frequentatori del mondo vinicolo un’analoga stanchezza in chi beve vini dove ogni singola voce aromatica e gustativa è al suo posto: i famosi vini “equilibratini“, ovvero pettinati.
Certo, di qui ad abbracciare acriticamente l’estremo opposto, cioè il vino/repertorio di difetti e odori sgradevoli, ce ne corre.
Però su questo non ho voglia di fare ulteriori precisazioni, fine del post scriptum.

* lascio fuori la pasticceria per l’assodata verità che trattasi di compartimento in cui la precisione millimetrica ha un suo peso significativo.

 

Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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