Ivan Giuliani, tra Terenzuola, le Cinque Terre, le Alpi Apuane e una nuova avventura nord-piemontese

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«La stagionalità della vigna è come una droga. Leghi, vendemmi e poi riparti»
Ivan Giuliani

Piemontese trapiantato in una Toscana mezza ligure, quella della Lunigiana, Ivan Giuliani, cinquant’anni compiuti lo scorso 13 marzo, è un vignaiolo di temperamento le cui peculiarità diventano in lui prerogative: curiosità, dinamismo, etica, frontalità, perfezionismo. Eclettico e intransigente, spirito battagliero e cervello perennemente in ebollizione, Ivan nasce a Novara e vive a Stresa prima di trasferirsi nel 1994 in pianta stabile ma non perenne a Terenzuola, il podere di Fosdinovo comprato dal nonno Luigi rientrato dall’America dopo la crisi del 1929. Ivan arriva qui, nella provincia di Massa-Carrara, nel 1993 per fare la prima vendemmia con gli zii, l’anno dopo apre la partita Iva quando non ha ancora compiuto 21 anni e in seguito interrompe gli studi in medicina per diventare produttore a tempo pieno. E a largo raggio. Guarda oltre Fosdinovo, verso le Cinque Terre e le Alpi Apuane (dopo aver fatto un pensiero anche all’Etna), ovvero il cuore della Lunigiana storica, tra zone aspre, basse rese, lavoro manuale e il mare come protagonista. «Avrei voluto fare architettura, ma i miei non me l’hanno permesso (“morirai di fame” mi dicevano). Mi è rimasto l’amore per l’arte e nel tempo sono diventato un architetto del paesaggio, un custode del territorio e del suo ambiente».

Nel 1999 Ivan ricava la nuova cantina ristrutturando il vecchio fienile. In campo recupera le vecchie vigne; valorizza gli autoctoni, anche di varietà ormai abbandonate, con selezioni massali; mette a dimore nuovi impianti ad alta densità; sceglie il biologico prima e il biodinamico poi con concimazioni organiche, sovescio e inerbimento. In cantina lavora con fermentazioni spontanee, macerazioni oculate, vinificazione per caduta su quattro livelli verticali.
Gli ettari complessivi sono 24 in tre diversi comprensori per un volume annuo di circa 200.000 bottiglie.

Nell’area delle Cinque Terre Ivan ha recuperato un ettaro e mezzo di vigneto nel comune di Riomaggiore su tre diversi livelli di quota: mezzo ettaro che conferisce struttura nei pressi della stazione di Corniglia, vicino al mare; mezzo ettaro a Volastra nella celebre Costa de Posa, che dispensa aromaticità; e mezzo ettaro nella parte più alta, vicino al Telegrafo di Riomaggiore, che conserva l’acidità (il terreno è formato da scisti neri, quelli che si ritrovano in alcune parti del Fosso di Corsano a Fosdinovo).
«Ogni cento metri di altitudine c’è una settimana di maturazione di differenza. Nel 2022 abbiamo cominciato la vendemmia il 4 settembre e l’abbiamo chiusa il primo di ottobre».
Ai vecchi impianti a pergola di ottant’anni (5000 piante per ettaro) si affiancano quelli nuovi ad alberello ad alta densità (11.500 piante), con pali di acacia come tutori. Ci sono voluti cinque anni per mettere insieme questo piccolo patrimonio: nel 2018 sono iniziati i lavori di pulizia e recupero, nel 2019 i nuovi impianti. «Qui ci ho lasciato il sangue».
Dall’appezzamento sotto il Telegrafo di Riomaggiore chiamato Trevandasca, esposto a sud-ovest, che digrada dai 450 ai 300 metri, la pendenza è impressionante e la vista sull’azzurro del mare assoluta, quasi abbacinante. «Qui si sente il profumo dell’erica, detta “stippa”».

Il Cinque Terre 2022 è composto da bosco, vermentino, albarola e ruzzese. «Il ruzzese è un serbatoio per l’acidità, il vermentino garantisce aromaticità mentre il bosco il tannino». Breve macerazione sulle bucce, fermentazione in acciaio e sei mesi sui lieviti. Il colore è un paglierino intenso, il naso una screziatura continua di macchia locale (eriche, arbusti, ginepri), il palato è polpa piena e tagliente di erbe e selva, una serie di agrumi arabescati, una cassa di risonanza ancora trattenuta che esploderà in futuro, il finale è asciutto, salivare, persistente.

Ivan produce anche un Cinque Terre Sciacchetrà.
«Lavoro tutti i miei vini in semi-riduzione, ma qui l’ossidazione è perfetta per il bosco. Le uve vengono appassite fino a Natale, con una disidratazione lunga che concentra anche l’acidità. Il vino fa una fermentazione lentissima e poi finisce in damigiana».
Il 2019 – 15% di alcol magnificamente incorporato – ha colore dorato ambrato, sentori ammalianti di ginepro, artemisia, mandarino, amaretto, scorza d’arancia. La bocca è setosa, più cremosa che viscosa, sublimata e invitante, fresca, persistente, con una nota di amaretto intinto nell’alcol, tanta sapidità e una persistenza pazzesca di scorza di mandarino.

Il simbolo di Terenzuola, l’azienda agricola sulle colline di Fosdinovo, sono i due meravigliosi pini marittimi che risalgono al 1802 e incorniciano il podere. Tutt’intorno alla casa ci sono i sei ettari del Fosso di Corzano, il cui bianco è in produzione dal 1996. Il fosso è una frattura, visibile a occhio, verso il lato ovest del podere, con ghiaie nella parte bassa, arenarie rialzate in quella alta e poco calcare.
Assaggiamo a pranzo i tre Colli di Luni Vermentino.

Il Vigne Basse 2022 – è il vermentino (con saldo di albarola) di una dozzina di cloni che arrivano dai 12 ettari di vigneti pedecollinari, dove il vermentino bianco coabita con quello nero – ha polpa, agilità, freschezza. Senti la foglia di pomodoro, la ginestra, i fiori di campo.
«Perfetto per chi non conosce il Vermentino. Fiori bianchi, biancospino ed erbe di campo. Ghiaie, macerazione di una notte e fecce fini».
Il Fosso di Corsano 2022 ha una nitidezza e un “grip”, una reattività che invano si cercherebbero in un altro Vermentino di pari annata, e non solo sui Colli di Luni.
«Prima annata 1996, quattro ettari e mezzo, altitudine tra i 250 e i 370 metri, vigne dai 20 ai 40 anni di età».
Ho degli appunti su delle annate precedenti trascritti durante una visita nell’ottobre del 2019.
Il Fosso di Corsano 2018 sprigiona aria di mare, sprezzature salmastre, poi erbe spontanee e aromatiche, mirto, ginestra e timo. Il sorso è succoso-tonico, un incedere sapido e salmastro. Notevole la persistenza, quasi incessante tra fiore di rosmarino, mirto, alloro, timo e altre erbe spontanee.
«Selezione massale da cinque piante madri dal gambo e raspo rosso, spargolo, poco produttivo. Scisti di arenaria e non ghiaie, più macerazione, più sosta sui lieviti, vendemmie scalari, dalla più fresca a maturazione tecnica alla vendemmia tardiva, unione di elementi orizzontali e verticali».
Il Fosso di Corsano 2017 ha colore brillante, un naso screziato e cangiante di erbe (ancora l’alloro, il timo, ecc.), poi il mare e la nocciola e lo scisto minerale-pietroso. La bocca è piena di succo quanto tonica, laminata, fitta di scaglie pietrose e saporite, di erbe aromatiche, con trazione finale di lunga persistenza. «Non ho praticamente sfogliato».
La freschezza del Fosso di Corsano 2015 – fin da un colore paglierino brillante-verdeggiante – lascia quasi esterrefatti. Il naso sembra ancora in riduzione, le erbe appena tagliate, mentre cominciano a diffondersi i minerali idrocarburici che diventano caratteristici di questo bianco con l’età. La bocca è matura, contrastata: dietro l’alloro c’è un mare che risuona, una pietra che fa salivare.
«Da quando nel 2014 ho iniziato a lavorare per caduta senza la pompa, non tolgo più niente al vino».

Torniamo alla tavola. La terza bottiglia è quella de I Pini di Corsano 2021. Proviene da un singolo, piccolo appezzamento di 2500 metri quadri adiacente ai due pini marittimi.
«È la particella 343 su un costone di roccia ricco di ferro e manganese. Scisti e micascisti con un pH tra i più bassi d’Italia, 4,5-4,7. Era la vigna dello zio dove giocavo da ragazzo, nel 1995 ho fatto il Ronco dei Pini, solo in quell’anno, e ora l’ho ripreso». Al naso sembra quasi un Riesling, in bocca è ricco e slanciato, punto d’incontro tra mare e sole.

Siamo ora nella sala degustazione di Terenzuola, ricavata in una soffitta quasi bohémien.
Il Vermentino Nero 2022 – dalle vigne pedecollinari di cui sopra – ha colore rubino leggero, un naso stuzzicante di lampone fresco, fiori e pepe, una bocca succosa, tonica, pepata, lunga, invitante, dal tannino trasparente.
«Volevo valorizzare il vermentino nero, farlo diventare popular. La prima annata è stata la 2004 dopo due versioni in rosa. All’inizio questo rosso aveva riduzioni, puzzette, fecce, era un vino un po’ rocambolesco, poi piano piano, in maniera deduttiva, ho iniziato a inserire dei sistemi soffici, ho creato un piano in più nella cantina gravitazionale, abbiamo cominciato a usare un po’ di legno per la malolattica ma i travasi producevano un effetto boomerang. Finché ho trovato una vaschetta a cuccia di cemento da 7 quintali e dal 2006 ho introdotto il cemento e le botti austriache che uso anche per La Merla, e ho cominciato ad assaggiare certi dirimpettai di un certo lignaggio come Morgon con i suoi gamay, strizzando l’occhio alle macerazioni semi-carboniche, con grappoli interi e chicco intero. Sono sparite la pompa e altri mezzi meccanici e ora lavoriamo su quattro piani e mezzo in verticale, fa poca feccia e la fa fine, che è poi quella che serve, e il risultato si sente».

La Merla, come si chiama dal 2020 (prima era La Merla della Miniera), da quando cioè viene prodotta in botti austriache da 20 ettolitri e non più nel legno piccolo, proviene dall’omonima varietà di canaiolo nero dal raspo rosso, più un saldo di massaretta. Il 2021 ha colore rubino vivo e brillante, impronta di frutto materico e profondo al naso, palato pieno, selvatico, dai toni di ciliegia e marasca, dagli echi balsamici, da un tannino che rinsalda e rinforza. Che abbia bisogno di tempo per evolvere al meglio («fa la “steccata” o “piemontesina”, cioè il cappello sommerso, che gli dona tanto tempo e gli dà freschezza»), lo dimostra un assaggio della Merla della Miniera 2016: frutto nero mediterraneo, cenere, sorso tremendamente succoso e avvolgente, ferroso, ematico, pulsante. Energico e pepato, rilascia note di alloro e ginepro.

«È un vino che definisco pagano: sanguigno e carnale». Notevole il tannino che spinge. «Vinificazione con i raspi, 90 giorni di cappello sommerso “nebbiolizzato” – perché la buccia e i vinaccioli gli assomigliano –, fermentazione alcolica e malolattica in cemento naturale “spazzolato”, un anno di rovere di Slavonia (fiore) e vecchie barrique (torchiato), sei mesi di cemento, dieci/dodici mesi di bottiglia, esce dopo ventisette mesi».
Siamo ora tra le Alpi Apuane, di fronte alle spettacolari cave di marmo di Carrara, blocchi bianco-grigi che si stagliano sul cielo blu di una fredda e soleggiata giornata di metà dicembre. È difficile rimanere indifferenti a questo angolo di viticoltura estrema che da una parte guarda le montagne e dall’altra il mare. Non lo fa nemmeno Ivan, coinvolto in prima persona in questo paziente, smisurato, oneroso recupero viticolo e ambientale: 4 ettari suddivisi in più appezzamenti o “quadri” nel comune di Carrara con 1000 ore di lavoro manuale e rese di 30-35 quintali per ettaro. Lo sguardo gli si accende e comincia a raccontare storie di popoli e migrazioni.

«A Carrara nasce l’anarchia contro Roma. I Romani erano arrivati qui nel 177 a.C., fondando la colonia di Luni e mandando i coloni locali nel Sannio: Circello fu fondata da loro».
Raccontata da Tito Livio, la deportazione di 40.000 Liguri Apuani nel 181 a.C. per mano dei consoli romani Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego è una storia poco conosciuta. «Quelli che sono rimasti hanno cominciato a lavorare sui terrazzi. Questo è il regno della malvasia di Candia che arrivò con i greci dell’isola di Creta, i quali trovarono in queste vallate un luogo simile al loro d’origine. Ma tutto questo territorio, che dalle Apuane arriva a Pontremoli, è ricco di varietà: se ne contano circa 200. Questa è anche la zona del vermentino nero, mentre la barsaglina o massaretta arriva, come dice il nome, da Massa, oltre quella collina, con il cru San Lorenzo che era della cantina Cima» mi dice, indicando il crinale a est.

Davanti alle Apuane e alle cave di Carrara c’è una costa di vigneti circondati dai boschi e strappati alle rocce della montagna. «La Ca’ Michele era stata acquistata dalla prozia ma quando è morta ha lasciato tutto alla chiesa. È una costa esposta a est, come molti cru del tempo, perché l’est liberava dalle guazze, mentre l’ovest soffriva di più per il calore. Tutta questa costa la chiamavano “La Perla”». Mi parla anche di un altro cru che risale al 1300, il Castellaro, dal Castello dei Malaspina. Sotto i nostri piedi c’è il quadro dell’Anfiteatro, che ha una doppia esposizione. «Quello davanti guarda il mare a sud-ovest e dunque è più soleggiato, quello dietro guarda invece i monti verso nord-est ed è dunque più freddo e acido. Ogni quadro ha nella parte mediana una scalinata di 150 metri di dislivello. Per ogni quadro faccio le massali e impianto vecchi alberi da frutto come il melo rotella».
Diamo un ultimo sguardo alle cave prima di voltarci verso il mare.
«Mio nonno lavorava in cava con le slitte e i buoi per trasportare blocchi di marmo da 80 tonnellate. Era un lavoro talmente pesante che a un certo punto è andato a fare le gallerie in Svizzera. Qui nella Apuane è come nelle Cinque Terre: tutto è in caduta libera e parliamo di un territorio di 2000 anni. Ci sono calcari e terreni acidi perfetti per le varietà locali. Nel 1993 la damigiana costava 300.000 lire, 6.000 al litro per lo sfuso che veniva servito nelle frasche con uova, lardo di Colonnata e torta d’erbe, il “brunch” dell’epoca».

Arriviamo al quadro della Villa, 8000 metri quadri divisi in due appezzamenti. L’inerbimento è totale: si sollevano fragranze e profumi che inebriano. Vecchie piante e nuovi impianti da selezione massale: un lavoro di restauro rispettoso dell’ambiente originario.
«Ci vogliono 30.000 euro solo per la gestione dell’erba con sei persone. Per i trattamenti servono 60 chilometri di gomma, calcolati per le due pareti fogliari del filare. 

Ci sono ciottolati secolari che univano a zig zag la “forma” alta e quella bassa. Erano i camminamenti per gli asini. Mio zio faceva gli scassi con il bue. Oltre al vermentino bianco ci sono anche le malvasie e i moscati in più varietà e il ruzzese. Nei quadri tendo a interpretare i vitigni per microclima: parte bassa buccia più spessa, parte alta buccia più sottile. Ci sono vigne “tribolose” piantate a spina cioè di sbieco, non secondo le curve di livello. In Candia applico la biodinamica con tisane e i preparati 500, 501».

Il Permano, prodotto dal 2015, è dedicato al padre Ermano. Vi gravitano una molteplicità di uve, «tra cui le aromatiche come vermentino, malvasia e le sei/sette varietà di moscati; le acide come verdesca e verdella; e le tanniche: greco, durella, trebbiano giallo, trebbiano rosa e la bracciola, che sembra un’albana». Macerazione per una ventina di giorni e maturazione sulle proprie fecce in cemento. Il 2021, ancora compresso, ha colore dorato, nerbo, vigore e note di frutta a pasta gialla abbinate a sentori di erbe aromatiche. Il 2017 ne mostra l’evoluzione nel tempo: fiori gialli, ginestra, note salmastre, impatto succoso, tannino sottile, allungo espressivo e contrastato. «È fresco, tannico, morbido. È l’Arca di Noè subito dopo la fillossera».

Infine, il quadro Tommasella, la vigna dei nonni, 4000 metri quadri con piante prefillossera del 1887 di vermentino nero più malvasia e massaretta . Il terreno è calcareo-argilloso con presenza di carbonati derivanti dalla decomposizione arenaria di scisti e micascisti, le pendenze sono aspre con 150 metri di dislivello tra la parte bassa e quella alta. Ricoperti dall’erba ci sono circa 700 scalini con le alzate in marmo di Carrara. Un giardino gradonato dove nasce il Forma Alta (vermentino nero 85% e massaretta). Fermentazione con parti di grappoli e chicchi interi per circa tre settimane. Maturazione per due anni in cemento per il vermentino nero e in un vecchio tonneau per la massaretta. Colore rubino vivo, un naso che sembra uno Châteauneuf-du-Pape: macchia boscosa e mediterranea, menta, pepe, gariga, frutti neri. Palato pieno, succoso, tonico, ritmato, incisivo, piccante, con persistenza sanguigna e selvatica.

Non pago di tutto questo ma desideroso di altre avventure, Ivan si cimenta con un altro luogo estremo della viticoltura nord-italiana: la zona del Boca, nel Novarese.
«Cinque anni fa a una cena di coscritti ci siamo chiesti: “Che cosa faremo per i nostri 50 anni?”. La risposta è stata: “Un Nebbiolo”. Ho visto un po’ di cose tra Ghemme e Sizzano, ma dopo un anno e mezzo che giravo, una domenica di settembre del 2021, mentre vendemmiamo qui a Terenzuola, vado da mio cugino per gettare la spugna. 

Ma ho fatto un ultimo giro, ho lasciato l’auto al Santuario di Boca e mentre passeggiavo sulla Traversagna del porfido tra Boca e Grignasco mi sono detto: “Voglio fare una cosa qui”. Per tre anni sono stato zitto per non pestare i piedi agli amici, a partire da Christoph Künzli delle Piane. Poi ho conosciuto la famiglia Carlone e con Davide ho trovato la giusta intesa e la soluzione per un mio piccolo conto lavorazione. E come partner dell’impresa c’è un amico: Davide Minoletti della Rampolina, ristorante a Stresa».
Assaggio in anteprima il Colline Novaresi Contrordine 2022 che uscirà a marzo 2024. Proviene da un ettaro e mezzo di nebbiolo vinificato con metà della massa a cappello sommerso. Ha colore granato leggero, un bouquet di fiori freschi e secchi al naso, un sorso succoso, sensuale, setoso, tonico, balsamico, arioso, fresco, con allungo irresistibile di foglia di tè.

Il caso vuole che la domenica della Vigilia debba andare a Grignasco (Novara), dove si trova la cantina Carlone. Faccio un salto a trovare Davide Carlone. Di lui Ivan mi aveva detto che era un vignaiolo vero, uno di quelli che vivono un rapporto stretto con la propria terra, uno che il viaggio più lungo nel mondo del vino l’aveva fatto per andare in Langa a trovare Domenico Clerico. Tutto vero. Vado con lui in vigna lungo la Traversagna che divide Prato Sesia da Grignasco, ultimo avamposto vitato del Boca. Mi mostra i nuovi impianti messi a dimora il 28 giugno del 2022, quelli che pianterà nel 2024 su una gradonata di terrazzi a 550 metri di quota con cinque cloni diversi (ogni clone di nebbiolo, di croatina o di vespolina vengono qui vinificati separatamente). Passeggio tra le vigne poco più a est che hanno pendenze del 40%, che sono chiuse da cancelli in ferro battuto come quelli di una volta, che hanno solo pali in castagno e acacia (quelli delle testate sono tra i più grossi che abbia mai visto) perché «la vigna deve essere in armonia con quello che c’è intorno». Davide mi parla delle vene gialle (qui a Prato Sesia e Grignasco) e rosse (a Maggiora) del porfido, del lavoro di disboscamento che ha dovuto fare per piantare le vigne, di quello che vorrebbe continuare a fare in futuro, mi fa assaggiare in cantina delle basi (di croatina, vespolina, nebbiolo) meravigliose. Ne riparlerò in un prossimo articolo. Nel frattempo lascio qualche fotografia a piè di pagina.

Nel frattempo il Boca 2022 di Ivan (5 quintali d’uva e un tonneau) uscirà nel 2025. «Ne vedremo delle belle» dice.

Fotografie dell’autore e di Britta Nord.

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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