Alla scoperta dei “vini veneziani”: Venezia, Piave e Malanotte del Piave

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“Fatela finita!”. Questo mi sono permesso di dire a Stefano Quaggio, direttore del Consorzio Vini Venezia, che sovrintende a più denominazioni, tra cui quelle oggetto del tour conoscitivo cui ero stato gentilmente invitato: Malanotte del Piave DOCG (la versione del vitigno Raboso sottoposta ad appassimento), Piave DOC, Venezia DOC.

L’occasione della mia uscita erano le chiacchiere e i commenti a margine di una buona cena presso il ristorante Terrazza San Tomaso a Treviso, nella quale tre giovani produttori del comprensorio (Giorgio Bonotto, Sandre, Villa Valonte) avevano presentato i loro validi Raboso Piave DOC. Era la degna conclusione di una giornata di approfondimento della denominazione (denominazioni), organizzata con intelligente misura dalle professioniste dell’agenzia AB Comunicazione, cui va il mio sentito ringraziamento.

Niente programmi frenetici, trasferte improbabili, tempistiche difficili da rispettare, luculliani momenti conviviali apparentemente disegnati per mettere alla prova le capacità di resistenza (e di sopravvivenza!) degli invitati. A Dio piacendo, tutto l’opposto: ritmi più rilassati, benedette pause di relax che consentivano di meglio metabolizzare il molto che c’era da ascoltare e da imparare. E pasti che consentivano di apprezzare le abilità degli chef con assaggi mirati, evitando un’abbondanza tanto spettacolare quanto potenzialmente fastidiosa. Mettici la clemenza di un tempo ancora estivo, la raffinata eleganza di Treviso, il fascino rilassato della laguna veneta, e l’esperienza non avrebbe potuto essere più gradevole, ed efficace.

Il rimprovero apparentemente stizzito cui ho accennato aveva la sua ragion d’essere. Era tutto il giorno che mi sentivo ripetere che il Raboso, anche nel biotipo Piave, tendenzialmente più aggraziato nella struttura del suo cugino Veronese, era vitigno difficile, che faceva fede al suo etimo, che si fa risalire alla rabbiosa aggressività della componente tannica, con la conseguenza di un equilibrio e di una bevibilità effettivamente anche nemmeno sognabili se non prima di un lungo affinamento. E non a caso mi veniva tra le righe assicurato che per stillare un quarto di elegante nobiltà da cotanto enologico problema, l’unico modo era non solo dedicare cura maniacale alla scelta vendemmiale e alla relativa selezione all’atto della raccolta, bensì ricorrere all’appassimento. Come dire che i prodotti vinificati “normalmente” venivano nominati quasi solo per completezza espositiva, come una sorta di iattura di cui era purtroppo impossibile fare a meno.

In realtà, i risultati degli assaggi, a cominciare dalla degustazione guidata pomeridiana che aveva presentato anche (ma non solo) annate già evolute di Malanotte DOCG, proprio nell’antico borgo che gli ha dato il nome, raccontavano una storia diversa: la struttura polifenolica era certo imperiosamente presente, e non poteva negarsi come fosse il carattere maggiormente caratterizzante il sorso. Ma al contempo la trama di questo tannino ossessivamente ricordatoci era tutt’altro che sgraziata, e inoltre il suo peso poteva essere bilanciato da altri componenti del vino presenti in gran copia: acidità in primis, per salivare riducendo la sensazione di secchezza al palato; ma pure polpa e morbido volume, con gli assaggi che tutto erano meno che sottili; e anche l’alcool contribuiva a richiamare una sensazione di morbidezza. Senza contare che a cena i Raboso giocando con le giuste pietanze davano il meglio di sé: come suole, un leggero squilibrio comportava il perfetto abbinamento con le pietanze adatte (con presenza di untuosità salsata, succulenza, financo grassezza, oltre che ovviamente struttura e intensità al palato). In qualche modo, si poteva dire che nelle adatte circostanze la potenza della bomba disinnescava se stessa.

Chi vi scrive frequenta assiduamente giovani Sangiovese scalpitanti, dal tannino orgogliosamente incavolato, smaccatamente assertivi nella loro astringenza, in speranzosa attesa di una superiore compiutezza regalata dal tempo. Ebbene, nella mia pluriennale esperienza (ovvero da più tempo di quanto mi piaccia ricordare…), con allarmante frequenza ho incontrato tessiture polifenoliche anche troppo aggressive: che si tratti di estrazioni eccessivamente allegre in vinificazione, o di dovizia di legno per l’affinamento, inflitto al vino nel maldestro tentativo di ingentilire il portato di una materia prima non adeguatamente matura, comunque molte, troppe volte il mio palato ha subito una sorta di attacco, da tannini che dichiaravano una guerra figurata (ma nemmeno troppo), e che con maligna perniciosità smentivano i fiduciosi vaticini di un radioso futuro da parte dei produttori. In quei casi, le mie mucose ferite attendono pazienti progetti agronomici ed enologici più riusciti (che vivaddio sono una consistente maggioranza), e risulta peraltro impossibile non fare paragoni con le “esplosioni” tanniche di altri vitigni, altri territori.

In questo contesto, mi corre l’obbligo di ribadire che il Raboso è lungi dal costituire una delle varietà più “minacciose”. Attraversiamo un panorama enoico nel quale il consumo di grandi rossi (grandi di “dimensioni” e di qualità) disgraziatamente langue, sacrificato sull’altare di abitudini salutiste, tanto salutari quanto modaiole (e la più volte ribadita salubrità del consumo moderato dei vini rossi dove è andata a finire?). E in cui le denominazioni più rinomate salgono comunque di prezzo, in forza di un successo mediatico che rinsalda le preferenze dei loro consumatori abituali, ma contemporaneamente scoraggia i potenziali nuovi adepti delle più giovani generazioni. Allora forse uno degli strumenti atti a re-incentivare il consumo dei vini rossi di grande caratura potrebbe essere uscire dalle rotte più battute: sperimentare senza remore nuove varietà e territori e le loro connessioni. La preziosa e rara chicca del Malanotte, tuttora prodotto in quantità confidenziali, ha il diritto di guadagnare il proprio posto nell’empireo dei grandi vini italiani da appassimento (non dolci). Insieme ad un Amarone che addirittura subisce le proporzioni del proprio successo, e a uno Sforzato di Valtellina che gioca la propria immagine sullo storytelling della viticoltura eroica (andatevi a vedere i siti istituzionali), colpevolmente passando in secondo piano l’evidente crescita della qualità diffusa dei vini della denominazione.

Anche i produttori del Piave hanno il diritto di farsi ascoltare (e devono credere che ci sia qualcuno interessato a farlo; il nostro press tour era un primo passo positivo in questo senso). Vale la pena che raccontino come hanno piegato un territorio la cui conclamata storicità nella produzione enoica era legata alle fortune commerciali della Repubblica di Venezia, e quindi ai grandi numeri e a caratteristiche dei vini meticolosamente documentate che non corrispondono più al gusto moderno. E’ un contesto storico e pedoclimatico vasto e più differenziato di quanto si possa pensare: dalla pianura alluvionale interessata dall’influenza dell’Adriatico, ad alture ove non mancano suoli con giaciture di origine vulcanica. Ne fanno scaturire un vino che guadagna in grazia ad ogni vendemmia: giovano focalizzazione del progetto enologico verso obiettivi più calibrati e sapienza esecutiva, per non tacere della capacità di valorizzare una tradizione solo apparentemente desueta.

Intendo gli impianti a bellussera, veri, maestosi monumenti agronomici a tutore vivo, singole piante i cui tralci si distendono apparentemente all’infinito nel creare una cortina verde, al di sotto della quale le famiglie dei mezzadri, poi faticosamente divenute proprietarie con una dinamica ben nota, sfruttavano lo spazio per coltivare altri componenti della dieta quotidiana. Le produzioni abbondanti hanno storicamente contribuito al carattere rusticamente ruspante del Raboso, il quale, mutatis mutandis, conserva un’attrattiva non da poco per le fasce di consumo più legate alla tradizione. Ma in tempi di cambiamento climatico, la ricerca della maturità del Raboso, pure necessaria, rischia di sconfinare in una pesantezza che è pur sempre un rischio immanente. E hai visto mai che i delicati equilibri degli impianti a bellussera possano divenire una preziosa risorsa per giungere a un’eleganza che il Raboso può avere nel suo DNA.

Mi piace rilevare come il complesso dei produttori sia stato capace di emendarsi dalle criticità di questo duplice stereotipo, travolgente pienezza versus arruffata grintosità, anche e soprattutto con le uve provenienti da questi vigneti storici, monumenti di storia agraria. Le aziende che ho incontrato sono per lo più guidate da vignaioli giovani ed entusiasti, che ne hanno assunto la conduzione con una transizione generazionale virtuosamente più indolore che altrove. E la loro intraprendenza e lungimiranza scolpisce delle denominazioni (il prezioso Malanotte, ma anche il Piave DOC) che dovrebbero andare fiere della loro modernità.

Ma la nostra breve esperienza veneta non mancava anche di un momento bianchista: il contraltare del Raboso, nell’attenzione e nella fiducia ripostavi dai produttori del Piave, è l’Incrocio Manzoni.

L’attività sperimentale svolta dagli studiosi italiani nell’incrociare le più svariate cultivar di vite, alla ricerca di qualcosa di più e di diverso, ha poco da invidiare all’operosità del teutonico istituto di Geisenheim. Il più eminente paladino nostrano di questo infaticabile lavoro, in effetti paragonabile alla inesausta attesa di un terno al lotto, è stato notoriamente il professor Luigi Manzoni. In quel di Conegliano sperimentò incroci i più disparati (devo ancora togliermi lo sfizio di assaggiare un vino fatto con il singolare matrimonio di cabernet sauvignon e glera!!), con la speranza di contare sulla legge dei grandi numeri per creare un nuovo vitigno di un qualche interesse. L‘incrocio più noto è quello tra Riesling Renano e Pinot Bianco, denominato 6.0.13 (dalla numerazione attribuita ai rispettivi filari e alle piante dei diversi esperimenti ivi posizionate, mentre lo “0” indica gli esperimenti posteriori al 1930), di gran lunga di maggior successo degli altri risultati conseguiti, al punto di essere designato tout court Incrocio Manzoni, o ancora Manzoni Bianco.

Trattasi di una varietà che gode di una perdurante popolarità in forza di un’esuberanza aromatica quanto mai accattivante, con la maturità della frutta gialla che spazia da note tropicali a riconoscimenti più fragranti. Aggiungi una pienezza al palato che raramente sconfina nella pesantezza, ed ecco spiegato come il Manzoni Bianco si sia allargato al di là della sua culla veneta (dopo tutto è nato a Conegliano) ovunque ci sia bisogno di un’iniezione di frutto per vitigni sotto questo aspetto più reticenti: non a caso lo si trova per esempio a San Gimignano, e anche talvolta sulla costa toscana, ogni qual volta un mercato affamato di qualunque bottiglia su cui sia scritto “Vermentino” conduca qualche produttore ad esagerare un poco con le rese.

Apparentemente tutto bene, ma in realtà questo “salvifico” ruolo del Manzoni Bianco ne ha condizionato la percezione, castrando la prospettiva di adoperarlo per conseguimenti oltre l’immediata piacevolezza (che, si noti bene, è comunque un pregio da non disconoscere). Gli assaggi che ci sono stati proposti a partire dal nostro pranzo di benvenuto hanno invece mostrato una varietà tale al punto che ovviamente non tutte le interpretazioni sono risultate egualmente gradevoli, né avrebbero potuto. Da bottiglie che corrispondevano virtuosamente alla fama consolidata del vitigno (e inoltre MOLTO ben prezzate), si trascorreva a esempi di vinificazioni in legno rilasciati sul mercato dopo un tempo adeguatamente lungo per guadagnare in complessità aromatica, che virava verso un principio di non sgarbata evoluzione ossidativa: in questo caso però l’acidità che iniziava a declinare faceva percepire la non indifferente avvolgenza al palato con un poco di pesantezza. Cifre stilistiche che dipendevano non soltanto da scelte interpretative dei produttori, bensì anche da differenze di terroir, come ci specificava in sede di presentazione il solerte e gentilissimo presidente del Consorzio.

La quadratura del cerchio la trovavamo in occasione del pranzo di commiato della nostra breve due giorni (anzi, un giorno e mezzo; la cena trevigiana, invece, era stata dedicata al Raboso). Si svolgeva in un agriturismo al limitare della laguna veneta, cui eravamo giunti dopo un’escursione mattutina in barca sulle diramazioni del delta del Piave, molte delle quali di bellica memoria. Cui era seguita una pedalata (assistita) lungo un itinerario cicloturistico, evitato da chi vi scrive (sempre avuto un rapporto conflittuale con le due ruote: piuttosto me la sarei fatta a piedi). Sfacciatamente giunto in anticipo all’agriturismo a mezzo pulmino, il sottoscritto attendeva i baldi ciclisti seduto a contemplare al sole tardo estivo l’intricato reticolo degli argini della laguna. La luce era troppo radiosa perché l‘analogia di luogo mi facesse azzardare il paragone con le visioni del protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: nessun giovane Tadzio a svanire in un mattino madreperlaceo, testimonianza vivente di un tempo perduto e rimpianto. Ma poiché sono comunque incline alla suggestione, la mia rilassatezza era tale che mi pareva di essere immerso nell’atmosfera diafana dei “pomeriggi inutili” delle vedute del Canaletto, come il critico Roberto Longhi ne definiva la luce ineffabile. E questo per chi dice che il vino non possa accendere quanto di più profondo risiede, dormiente, in chiunque.

La precedente divagazione è pertinente nella misura in cui i tours conoscitivi cui abbiamo il privilegio di partecipare non si riducono ad un mero approfondimento tecnico (che pure c’è, ed è importante). Bensì investono più o meno consapevolmente, cioè anche oltre le intenzioni di chi li organizza, la sfera emotiva: dopo tutto il vino è emozione, non una scheda di degustazione. Con tutto il rispetto per chi lo considera tale, sommeliers compresi, categoria alla quale ho l’onore di appartenere, ma è ben lungi dall’esaurire il mio rapporto con le mie esperienze di assaggio.

Per tornare, doverosamente e gradevolmente, all’Incrocio Manzoni, gli ultimi calici lo cimentavano nell’abbinamento con una varietà di pietanze: da una batteria di sfiziosi antipasti che brillavano per fantasia e precisione esecutiva (soprattutto del pesce “in saor” imparentato da vicino con la poesia), ad una pasta con sugo a base del famigerato granchio blu (prima volta che ho avuto occasione di mangiarlo: gradevole ma non “fulminante”, e quanto mai macchinoso da aprire). Il nostro Manzoni, nelle sue variazioni, ben si disimpegnava: con menzione speciale per un paio di etichette che inaspettatamente sciorinavano una profondità salina di tutto rispetto, che ne moltiplicava a dismisura la persistenza e le possibilità di abbinamento, in ispecie, ma non solo, con tutte quelle pietanze caratterizzate da una tendenza dolce. Innervata da un’apprezzabile tensione acida, in sintesi questa sapidità smentiva “ex abrupto” la monodimensionalità gustativa del vitigno fin lì sperimentata, aprendo un orizzonte stuzzicante per futuri esperimenti, e auspicabilmente, conseguimenti.

Luca Da Ros
329 5479098 info@freeyes.it

Era un finale adeguato per questa esperienza. Come spesso avviene, con la fiduciosa impressione, magari un poco auto-celebrativa, di avere imparato qualcosa, e l’inevitabile consapevolezza di aver schiuso ulteriori orizzonti da esplorare. In parole povere, un socratico “sapere di non sapere”. D’altra parte, l’umiltà nell’espressione dei propri giudizi dovrebbe rappresentare una delle qualità imprescindibili del vero appassionato del nettare di Bacco, insieme al rispetto per il lavoro dei produttori e le altrui opinioni, all’entusiasmo per la novità, e alla capacità di imbucarsi nelle degustazioni senza essere invitati…

Chiudo con le note di degustazione di alcuni assaggi. A chi pensa siano pochi, rispondo che la litania contabile di vini, vinificazioni, riconoscimenti gusto-olfattivi, e quant’altro, svilisce il senso diquanto si può imparare in un tour come questo, e che ho cercato di raccontare. ATTENZIONE: la mancata citazione di altre referenze, non significa assolutamente che non fossero degne di menzione, non rappresentative, o tanto meno sgradevoli.

Bonotto delle Tezze, Malanotte DOCG 2018: 45 giorni di appassimento del 25% della massa, affinamento in barrique e botte grande; 15% di alcool (e non sentirlo), 7,7 gr/lt di residuo zuccherino. Colore profondo, di bella gioventù (sono caratteristiche varietali); naso che non manca di frutto, ma ne mostra meno di altri Malanotte assaggiati; in compenso richiami non sgradevoli di china, inchiostro, erbe officinali, pomodori verdi; palato dal tannino importante, “puntuto” ma non strappato, che risulta più evidente per una polpa apparentemente inferiore ad altri assaggi, anche se ossigenandosi nel bicchiere assume un profilo più rilassato, oltre ad allungarsi, con buona profondità. E’ sorprendentemente facile da bere.

Ornella Molon – Campo di Pietra, Malanotte DOCG 2015: 22% dell’uva appassita in fruttaio per 45 giorni, delestage quotidiani per i 18 giorni di macerazione; 24 mesi in barriques usate, più 12 mesi in botti da 50 hl; dopo l’imbottigliamento, altri 12 mesi in vetro; 14%. Colore intoccato dal tempo che è passato, e grande densità nel bicchiere; olfatto sulle prime reticente, apre poi su confettura di mora, affumicatura, pepe bianco e verde, forse una leggera nota animale; bocca volumica, con acidità integrata, larga in attacco su un frutto corrispondente al naso, discreta lunghezza sui richiami più “verdi”, tannino importante ma fitto, buona profondità, equilibrato. Non manca di spinta acida, ma rimanendo nel bicchiere tende ad irrigidirsi nel finale.

Sandre, Piave Raboso DOC 2018: da suoli argillosi; 30 giorni di non timida macerazione con delestage quotidiani; malolattica in legno: vi trascorre 24 mesi in un misto di barriques francesi e botti di rovere di Slavonia, prima di ulteriori 12 mesi in vetro. L’archetipo di tutto quanto ci si aspetta dal vitigno, ma in una versione molto meno “rabbiosa” di quanto tradizione e preconcetti vogliano far credere. Per il resto c’è tutto, dal colore di squillante gioventù (confesso: non c’era una grande luce quando lo abbiamo bevuto a cena…), il naso intenso e intonso di frutto nero fragrante e pepe verde, la bocca reattiva, fresca, saporita, tannica sì, ma assolutamente non al punto da respingere chi vi si accosta. Chiama cibo, e lo esalta.

Cà di Rajo, Piave Manzoni Bianco DOC Nina 2021: la macerazione a freddo per 10 ore e l’affinamento in barrique del 20% della massa per 4 mesi concorrono a regalare un plus di complessità senza mortificare più che tanto l’esuberanza fruttata del vitigno dal punto di vista olfattivo. Piuttosto, il palato pare quasi un po’ “scarnificato”, ma ne guadagna in profondità salina, in allungo, e in versatilità di possibile abbinamento. Da verificare il potenziale di evoluzione, ma certo ora la beva è quanto mai piacevole, e “multidimensionale”.

Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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