Via dalla pazza folla. Vini da evasione. Quinta parte: Liguria (con appendice)

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Via dalla pazza folla è un vino desueto, che non sta sulla bocca del primo che arriva così come dell’esperto winewriter; via dalla pazza folla è un vino dalla personalità “sghemba”, a volte selvatica a volte candida, comunque pura e poco incline alle omologazioni; via dalla pazza folla spezza consuetudini per immaginarne altre. Potrebbe trattarsi di una etichetta prodotta da una realtà misconosciuta, oppure di una etichetta appartenente a una denominazione nota ma frutto di una interpretazione diversa e personale, e comunque non così affermata per quanto meriterebbe. Non si tratterà necessariamente di grandi vini in senso stretto, ma di vini che si fanno ricordare.Vuoi per quella virgola di carattere in più, vuoi per l’istintività, vuoi addirittura per l’ingenuità.

Le ragioni (parola grossa) che stanno alla base della serie “Via dalla pazza folla”  (nonché le suggestioni provenienti da Valle d’Aosta e Piemonte) le potrete leggere qui (leggi), nella  prima puntata. Nella seconda puntata sono andate in scena Lombardia, Emilia e Romagna (leggi). Nella terza Veneto e Trentino (arileggi qui). Nella quarta l’Alto Adige (leggi qui).

LIGURIA

Intitolare un pezzo “via dalla pazza folla” e parlare della Liguria vitivinicola è, come suol dirsi, cumsustanziale all’assunto stesso. Così forse la vedrebbe un Luigi Veronelli. D’altronde, non c’è regione italiana in cui si incastrino altrettanto bene tutti i tasselli necessari allo scopo: microfrazionamento dei fondi agricoli, viticoltura “portata” (o costretta) all’eroismo, radicamento affettivo e intransigente verso i vitigni dei luoghi, scarsa reperibilità dei vini al di fuori dei confini regionali (a volte anche comunali). Se poi ci aggiungiamo la bellezza estrema e “selettiva” del paesaggio, ne converrete che scrivere di cose via dalla pazza folla non è altro che scrivere di questa terra.

Ma se le condizioni al contorno ci stanno tutte, è pur vero che bisogna fare i conti con la gente ligure, o meglio, con i vignaioli liguri, e con la loro “testa” autarchica. C’è stato un tempo infatti in cui quello che emergeva dal panorama enoico regionale (perché poi c’era tutto un sottobosco di produzioni micro artigianali, vero e proprio cuore pulsante di Liguria, capace di inattesi slanci espressivi che andavano ben oltre i vini ossidati, che pure non mancavano) era solito traccheggiarsi negli alvei della correttezza tecnica e del basso profilo, quando non della spoliazione caratteriale dei pochi ma preziosi vini-vitigno locali. Complice la vorace fagocitazione da parte della costa, affamata soltanto di cose -c’entra niente se con anima o meno- con le quali abbindolare le flotte di turisti al mare; e complice una vitivinicoltura sincera ma poco consapevole, alla quale il più che latente disinteresse delle istituzioni non ha di certo giovato. Non mancavano le doverose eccezioni, come per ogni regola che si rispetti. Ed ecco infatti spuntare i Lupi, i Bruna, i Pippo Parodi (Cascina Feipu), i Rondelli (Terre Bianche), i Galluzzo (Terre Rosse) a remare contro, e a remare bene. Merce rara però, a cui per fortuna le indimenticabili ricognizioni veronelliane hanno attribuito il risalto che meritava. Eppure la campagna non pagava: troppo duro coltivarla, troppo difficile renderla remunerativa. Meglio quindi abbozzare. Nel frattempo, il miraggio economico offerto da città quali Genova, La Spezia e oltre costituiva un richiamo abbagliante, che andava inesorabilmente spopolando le campagne .

Da allora è passato del tempo, e le cose sono cambiate. Sulle gesta dei pochi indimenticati pionieri della vitivinicoltura di qualità (molti dei quali sulla breccia ancora oggi),  pian piano le balze liguri hanno riconquistato muretti più robusti e consapevolezze tutte nuove. Oggi è tutto un generoso fiorire di estri, a levante come a ponente, di gente che comincia a crederci per davvero. Con una innata vocazione a trattar di autoctonie, senza troppe divagazioni, le migliori interpretazioni in odor di territorio si sono liberate dal giogo della mediocrità e della tecnica “offuscatutto” e sono sovente in grado di declinare con dovizia di particolari suggerimenti che è difficile non poter ricondurre ai cru di provenienza.

Rimane un fatto, ineludibile: questa era e resta perlopiù una viticoltura difficile, disagevole, logisticamente impervia, a forte predominanza di manualità. Insomma, una viticoltura artigianale per antonomasia. Per questa immensa, paziente opera di recupero di vigne “pendenti” e vallate incontaminate, i produttori liguri vecchi e nuovi meriterebbero molte più attenzioni di quelle che ricevono. Da parte di tutti. Dalle istituzioni della loro regione per esempio. Comprendere che la valorizzazione della risorsa agricola rappresenta il futuro di una terra che sembra nata per questo, non è così difficile. Forse mi si risponderà che non sia altrettanto facile da mettere in pratica con gesti, azioni e promozioni concrete. Io penso sia soltanto questione di lungimiranza, e di “precedenze” etiche, di visioni. Quelle per esempio che continuano a muovere le gesta di certi testardi vignaioli liguri, in barba a una politica oramai spolpata di ideali e progettualità.

Da Ponente

Se Terre Bianche non puoi non annoverarla fra le cantine che contano (il che non sarebbe propriamente un parlare via dalla pazza folla), è pur vero che un vino come Arcana Bianco non “passa” tutti i giorni su questi schermi. Vino di frontiera complesso ed aristocratico, con una acidità vibrante a sostenerne le trame, Arcana Bianco 2008 (uvaggio pigato-vermentino) se la gioca bene sul fascino (in)discreto dell’evoluzione, regalando un sorso appagante, succoso, dai rimandi esotici nel frutto (ma senza strafottenze) e difficilmente dimenticabile per eleganza e portamento. Il costo non banalissimo (€ 16/18) non presta il fianco a critiche: la personalità qui fa la voce grossa.

A volte mi interrogo, e realizzo: cosa più di un Rossese può esemplificare al meglio il classico vino via dalla pazza folla? Distante dai luoghi comuni, con l’ingenuità e l’incanto di raccontare la propria unicità affidandosi alle sottigliezze, ecco qua l’ennesima tipologia non conosciuta per quanto meriterebbe. Oggi il panorama di Dolceacqua e dintorni è popolato da apprezzabili vigneron e l’assaggio dei Rossese offre sempre spunti molto interessanti. A pescare un vino via dalla pazza folla all’interno della denominazione è un attimo. Dovendo però sceglierne uno mi affido a colui che nelle ultime tornate mi ha convinto maggiormente: il Rossese di Dolceacqua Arcagna 2007 della Cantina del Rossese dei fratelli Gajaudo. A 14 euro o giù di lì un vino stimolante, da cui affiorano convincenti doti caratteriali, come la timbrica quasi vulcanica nella venatura minerale, la garbata terrosità del tratto gustativo, la scioltezza d’eloquio. Un corredo aromatico che ricorda quasi un pinonuar fa il resto, concorrendo da par suo ad una prestazione eloquente che ci parla di privilegi (il cru Arcagna è un must) e di trasparenza espressiva.

Particolarità nella particolarità, ci sono storie di cui vorremmo sentire parlare più spesso, come quella di Giorgio Guidotti, illuminato sulla via di Damasco e ritornato alla terra, alla sua terra (ci troviamo in Valle Ponci, incantevole paesaggio nature del finalese ligure), per dar vita a una scommessa forte, fatta sì di idealità ma soprattutto di cose (vini) concrete (e non manca l’agriturismo).

I giovani di Valleponci li aveva già scovati il nostro Luca Bonci (scusate l’involontaria rima) ad un Terra Trema/Critical Wine “leoncavalliano” di qualche anno fa (leggi qui). Incrocio i loro vini con una certa regolarità e quest’anno annoto la contagiosa bevibilità di un rosso come Granaccia 2008: pimpante, dinamico, gradevolmente pepato, mantiene ritmo, snellezza e sapore lungo tutto l’arco gustativo. Con la nonchalance del vino finto-semplice, e con un prezzo di appena 10 euro, ti inchioda all’ascolto reclamando a viva voce la sua vocazione innata per la tavola imbandita.

Da Levante

Tre proposte tre dai miei amati Colli di Luni, una denominazione da tempo affrancatasi dalla mediocrità ed emersa con vini di indiscutibile identità “varietal-territoriale”. Grazie all’opera certosina e trainante di produttori emblematici, Ottaviano Lambruschi docet, oggi il gruppo di vignaioli capaci e di vini rispondenti alle attese è assai fitto. Le tre proposte via dalla pazza folla le ho pescate da tre terroir distinti, al punto tale da sfociare persino in una appendice toscana. Voi direte: ma che ce lo inserisci a fare fra i vini liguri un vino toscano? Io dico non lo so, ma l’imprinting del vino ligure è chiaro, lampante, innegabile: il suo posto è lì. Intanto vi dico che c’è un Colli di Luni Vermentino 2009, prodotto dalla famiglia Zangani nel vecchio fondo agricolo di Mortedo, a Ponzano, nei pressi di Santo Stefano Magra, esemplare per nitidezza, espressività ed equilibrio. Lo marca una bella sensazione fruttata, ariosa e intensa, per una beva più all’insegna della linearità che non della classe. Ad un prezzo però (€ 7/8) che ripaga.

Poi c’è la conferma del Colli di Luni Vermentino 2009 (€ 10/11) dei fratelli Davide e Alessandro Neri de Il Monticello, su al Groppolo di Sarzana. Un bianco davvero stilizzato, gentile, pervasivo, solo in apparenza disadorno, solo in  apparenza semplice, casomai dispensatore di profumi sottili e seducenti, di un piacevole ritmo gustativo e di una beva dai toni rinfrescanti.

Infine c’è lui, l’intruso (ma neanche tanto): il Colli di Luni Vermentino Fravizzola 2009 di Chiara Barbero, figlia del vignaiol intellettuale Nanni Barbero, alla cui opera di recupero di vecchi ceppi in località Fravizzola, sulla collina di Fosdinovo (quindi, a ben vedere, in provincia di Massa), si devono piccoli miracoli liquidi di equilibrio e sobrietà. Con una acidità (naturale) che innerva e una spinta minerale che intriga, qui hai la purezza dell’acqua di roccia e una naturalezza espressiva da far drizzare le papille. Di fronte a vini così conviene stare all’erta.

Alle Cinque Terre c’è invece un bel movimento di idee a proposito di vino, e si è tramutato finalmente in concretezza il desiderio di dare impulsi e futuro ad una viticoltura davvero d’altri tempi, “soggiogata” da una natura tanto padrona quanto violentemente bella. Muovendo dalla coscienza critica e dal portato di idealità di pochi illuminati (Walter De Batté in testa), oggi assistiamo ad un bel turbinio di stili e di interpretazioni. Fra queste, il Cinque Terre Bianco Burasca 2009 di Cesare Scorza (€13/15) mi pare l’esempio calzante di un vino di territorio stabilmente in bilico fra perizia tecnica e veracità di ascendente artigianale. In questo bicchiere hai il dinamismo e la generosità, l’articolazione che ama i dettagli e una buona scorta di note salmastre, a restituire orgoglio ad un gruzzolo di vigne pendenti incastonate fra mare e cielo.

Come sempre finisco in dulcis. Fra i ricercatissimi ed introvabili vini dolci “marinari”, un pensierino corre volentieri al Cinque Terre Sciacchetrà 2007 della Cantina dei Tobioli, micro-cantina di Manarola capitanata dalla casata detta appunto dei Tobioli, ovvero dalle famiglie Barani e Cappellini. La ricerca non sarà semplice, lo so, ma potrebbe costituire la scusa per recarsi direttamente lì, sul posto, e capire con gli occhi un po’ di verità e bellezza.

Nel frattempo ecco un sorso generoso, avvolgente, di una dolcezza antica, prodiga di fragranze buone, per un gusto più verace che elegante. Un privilegio di artigianato enoico ricavato da uve bosco ben appassite. Il prezzo è quello della rarità (€ 48/50) ma qui si onora una categoria, quella dei vini via dalla pazza folla. E l’onorabilità, da che mondo è mondo, ha un prezzo no!?

FERNANDO PARDINI

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