Podere Fanante a Sarsina: la vite degli avi

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«Per te ari, per te semini, per te ugualmente mieti, infine questa fatica ti procurerà gioia.» Plauto

E così Taranis si sarebbe messo in cammino con la carovana dell’esercito romano. La VII Legio Gallica Veterana Mutinensis avrebbe fatto ritorno a Roma. Per molti anni  l’unità militare era stata impegnata nelle visionarie espansioni di Giulio Cesare nel nord ovest dell’Europa. In seguito alla conquista e alla sottomissione del territorio barbarus, l’esercito si trasformò in colonia e successivamente in provincia. Taranis il gallo era entrato nella milizia mercenaria della fanteria romana. L’Impero aveva bisogno non solo di schiavi ma anche di combattenti, e disponeva a suo piacimento dei popoli vinti. Le molte campagne fatte e il valore dimostrato lo premiarono con il grado di libertus (schiavo liberato). Nello stesso tempo i popoli della Gallia Comata si stavano integrando nel tessuto sociale dell’urbe e non creavano troppi problemi alla gestione militare, perciò molti soldati tornarono ai loro primi lavori. Tanaris prese così ad occuparsi  della  vinèa  di Lucio Munazio Planco. Il generale aveva portato con sé, dalle terre di Ciociaria, alcune piante per metterle a dimora: i filari gli ricordavano casa. L’animo del gallo, probabilmente più contadino che guerriero, si legò alle pratiche della terra rendendogli la vigna un giardino.

Durante i preparativi per la partenza, il tribuno chiese al suo ex legionario di seguirlo alla volta delle colline laziali, dove possedeva casa e terreni. Non voleva privarsi di un cosi bravo agronomòs. Sconosciuti i motivi che fecero decidere la partenza, ma è verosimile che nel preparare le proprie salmerie Taranis si portò dietro un ricordo, alcune talèe. Il viaggio della Legione si dipanò lungo la Gallia Transalpina, valicò le alpi fino all’ urbs di Augusta. Di lì presero la via Cozia fino a Taurinorum e si congiunsero con la via Aemilia per scendere a sud.

Nei pressi di Forum Livii il generale decise di non arrivare ad Ariminum ma optò per una scorciatoia. Alla congiunzione con la via che collegava Roma con il porto di Augusto, nei litoribus Ravennatis, scese in direzione di Perusia. Tante furono le tappe che l’esercito fece. Ogni città voleva vedere ed omaggiare la leggendaria VII Legio Gallica, alla partenza della quale, a suo tempo, vi fu a capo Caio Giulio Cesare.

Una di queste fermate avvenne presso il municipium di Sassina (Sarsina). La cittadella era fiorente; le ville patrizie, gli edifici pubblici e le case comuni erano sobrie ma eleganti. Ovunque si respirava sontuosità e grazia. Apparteneva all’urbe anche un grande teatro, regalo che Roma fece per omaggiare Tito Maccio Plauto, sommo poeta e commediografo, che qui vi nacque.

Taranis non aveva mai visto niente di così perfetto: campi rigogliosi, animali selvatici e domestici in gran quantità. Chiunque era il benvenuto e poteva integrarsi facilmente. Le giornate scorrevano quiete e sovente finivano con rappresentazioni nell’arena. Fu così che in qualità di libertus il gallo decise di rimanere e con i denarios  in suo possesso comprò un pò di terra da coltivare.

Potrebbe essere verosimile quindi che fu proprio un gallico a portare la vite nel fortilizio di Sassina (Sarsina). Oppure qualche mercante di ritorno dall’oriente. Potremmo anche ipotizzare che le talee fossero state portate dalla Magna Grecia fin su al nord dello stivale ( come racconta il prof. Attilio Scienza nel suo ultimo libro “ La stirpe del vino “). Tuttavia a noi non interessa chi fu il primo a portare le piante di vitis vinifera sulle colline di Sarsina. Sicuramente in quelle terre le vigne sono di casa dai tempi di Plauto, o anche prima, e ancora oggi tutto si ripete come allora.

Paolo Bartolini discende da agricoltori e vignaioli. Possiede due ettari e mezzo di vigna in zona Fanante, piccolo borgo appena fuori del paese di Sarsina, lascito di famiglia. La sua attenzione discreta mi accoglie assieme a un misto di interesse e curiosità. Dopo le presentazioni di rito andiamo a vedere i filari. Paolo vive in un territorio estremamente “didattico”, se vogliamo dir così. Le vigne sono state messe a dimora lungo i pendii di una valle molto stretta. Così, alla distanza di un trecento metri circa, un alto dirupo perpendicolare ci mostra le venature. In questo modo mi fa capire la composizione del terreno. Striature di arenaria, argilla solidificata e coriaceo limo si intervallano. Stessa struttura la si trova sotto le viti. Meraviglia.

Mi racconta dell’importanza di mantenere tutto l’ecosistema in equilibrio. E’ un viticoltore consapevole e adotta un regime biologico ortodosso. Vive il patrimonio genetico delle tradizioni con rispetto e senso etico. Sa che è suo compito preservare le usanze e compiere tutti i gesti necessari per fare vino. Ci spostiamo per vedere un’altra parcella. Le sfumature del suo lavoro sono vissute come un’eredità culturale. L’ indole sensibile e genuina sono il biglietto da visita di questo franco vignaiolo. La cantina è semplice, con le muffe giuste al posto giusto, in linea con la filosofia artigianale. Per di più torchio a mano, stappatura à la volée per le bollicine, etichette appiccicate una ad una. Niente fronzoli, qui al Podere Fanante, solo essenzialità.

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Rubino Bianco 2019 (trebbiano, albana, pagadebit, moscatello secondo il metodo Champenoise)

Interpretazione personale del metodo classico. Paolo lascia comunque, dopo la sboccatura, una piccolissima percentuale di lieviti nella bottiglia.

Un color ambra limpido e una leggera effervescenza. Volitivo al naso. Prima si ritrae poi ti fa la cornice a un campo fiorito di mille colori. La beva è fresca, snella, franca, dal timbro agrumato. Tanta  frutta bianca. Nel finale emerge una lieve nota di liquirizia, ciò che non mi aspetto.

Rosé Marie 2019 (sangiovese – metodo Champenoise )

Un rosa tenue nasconde al naso scorze di agrumi freschi, e accenni leggeri di camomilla, ginestre e rose. E poi, ancora, sentori di pane e peperone verde. In bocca note di frutti rossi croccanti con contrappunti mentolati e di liquerizia. Volubili e piacevoli i tannini. Un vino scattante e sincero.

Giglio bianco 2020 (trebbiano, albana, pagadebit, moscatello)

Il vino più intrigante, a mio avviso, soprattutto con un grande margine di miglioramento da qui a qualche anno.  L’originalità e l’insieme dei profumi è quello che più mi colpisce. Al naso mostra tonalità erbacee che possiamo scomporre e inventariare come vogliamo ma a me piacciono così, come fosse un bouquet di tante erbe.  Uno slancio di acidità e piacevolezza di beva. Fragoline di bosco, liquerizia, rabarbaro e note balsamiche.

Peval 2018 (sangiovese)

Stoffa da vendere per siffatto Sangiovese. La caparbietà nel volerlo fare bene è si nota, compromettendo un po’ la sua natura. A mio avviso l’indole è un poco diversa, difficile da domare, irrequieta, contestatrice. Di talento e intemperanza. Chissà quale potrà essere la vera “ cilindrata “ di questo vino!

La matrice comune della produzione aziendale è la freschezza che si nasconde sotto tante sfumature, sia olfattive che gustative. Vini che comunque possono ancora migliorare, visto soprattutto la grande ricchezza del suolo. Vedo queste creazioni di Paolo come una bozza in attesa diventare dipinto.

Al Podere Fanante ho respirato una accoglienza dai modi contadini, quelli di un tempo, quelli delle porte aperte, quelli che dànno prima di ricevere, quelli che ti accolgono sia tu conosciuto oppure foresto. In questa cantina ho rivissuto l’usanza e la generosità dei padri.

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Podere Il Fanante di Paolo Bartolini
Loc. San Martino, strada Fanante  211/2 –  47027 Sarsina (F/C)
ilfanante@gmail.com ; cell 340-2613256

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Marco Bonanni

Sono cresciuto con i Clash, Bach e Coltrane, quello che so del vino lo devo a loro.

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